Carta canta 2013
Carta canta 2011




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| L'«altro» nella stampa periodica italiana
M. G. Tanara e E. Schiocchet
Dicembre 2012 All’«altra metà del cielo», ma, insieme, all’«altro»
rappresentato dalla realtà sociale e culturale di
un Paese islamico come l’Arabia Saudita, è dedicato
il servizio scelto per questo numero.
Si tratta di un lungo reportage pubblicato in due
puntate da Oggi (24 e 30 ottobre): una giornalista,
Fiamma Tinelli, e un fotografo, Franco Pagetti, documentano
il loro viaggio nella vita quotidiana dell’Arabia
Saudita, concentrando la loro attenzione sulla
condizione delle donne.
Così, in quello che nell’occhiello
del servizio viene definito, a torto o a ragione,
come «il Paese islamico più tradizionalista», scopriamo
che le donne in pubblico devono indossare la
lunga tunica nera chiamata abaya e «devono coprirsi
il viso, non possono guidare e nei centri commerciali
frequentano reparti separati. Ma in privato le signore
di Riyad - spiega la giornalista - ci somigliano più di
quanto pensiamo».
È quello che emerge in maniera evidente dalle foto e
dalle parole di Hanan, benestante signora di origine
palestinese, nata e cresciuta nella capitale saudita,
che, mentre rispetta senza problemi regole e restrizioni
imposte alle donne nella sfera pubblica, riceve
giornalista e fotografo nel salotto di casa con un abito
rosso sopra il ginocchio, si definisce fashion victim
e parla del telefilm americano Desperate Housewives
come della sua serie tv preferita.
Il rispetto del modello tradizionale da parte di numerose
donne intervistate e fotografate nella prima
puntata sembra spesso accompagnarsi non solo a
una condizione economica agiata, ma anche a una
omologazione con i modelli della società consumistica
occidentale. Un dualismo tra pubblico e privato che non sembra intaccare quel principio fondamentale
della dottrina dei wahabiti che sta alla base delle
rigide regole della società saudita: «Il viso e il corpo
di una donna sono preziosi e vanno protetti: solo un
padre, un marito o un fratello possono vederli».
Tuttavia, come emerge dalla seconda puntata del
reportage, non sono poche nel Paese le donne - giovani
e meno giovani - alle quali questa «protezione»
maschile va sempre più stretta. E il primo «luogo» in
cui condividere pensieri critici e riflessioni diventa la
piazza virtuale di internet, come dimostra il blog di
Eman Al Nafjan (www.saudiwoman.me).
Si tratta solitamente di donne che hanno fatto un percorso
di studi, a volte anche all’estero, e che hanno
una professione: manager in una società di comunicazione,
medico, audiologa, giornalista, produttrice
televisiva. Essere sottoposte al volere del proprio
mahram («guardiano»), che sia il padre, il marito o
addirittura un fratello, appare ai loro occhi un’assurdità
anacronistica, come emerge chiaramente dai loro
post. Ma sanno anche che la strada da percorrere
è ancora lunga ed esige il coraggio di far interagire
protesta virtuale e protesta reale.
Così chi, come Samar Badawi, si oppone nei fatti
alla regola della sottomissione al suo mahram, sa
di andare incontro a conseguenze molto pesanti:
maltrattata dal padre fin da bambina, Samar è finita
in carcere. È stata rilasciata dopo alcuni mesi grazie
all’impegno del suo avvocato - divenuto ora suo marito
- e a una massiccia campagna su Twitter. Quest’anno
ha ricevuto il premio come «Donna più coraggiosa
dell’anno» dalle mani di Michelle Obama.
Novembre 2012 Nessuna identità personale e collettiva può prescindere dalle coordinate spaziali e temporali in cui la persona e la comunità si trovano a vivere e ad operare. Potrebbe sembrare un’affermazione scontata, ma forse ci sono casi in cui il legame tra il luogo e la comunità che lo abita assume, per svariate ragioni, una pregnanza particolare.
Su Il Venerdì di Repubblica del 7 settembre il servizio «Sabra e Chatila 30 anni dopo, ritorno al campo dell’orrore», firmato da Francesca Ghirardelli, riporta il lettore nei luoghi in cui nel 1982 i miliziani cristiani libanesi, sotto gli occhi delle truppe israeliane guidate da Sharon, uccisero centinaia di palestinesi (secondo alcune fonti le vittime furono 3.500).
La giornalista affida alle parole del direttore del Children and Youth Center di Shatila, centro che offre ai giovani, insieme alle attività sportive, la possibilità di conoscere la storia palestinese, la fotografia della situazione attuale del campo: «Nel 1982 ci vivevano 5.700 persone e le case avevano al massimo due piani; oggi vi risiedono in 18 mila (non tutti palestinesi) e i palazzi sono di sei piani, costruiti sulle stesse fondamenta». Come spiega Roger Davies, direttore vicario dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, a Shatila, così come negli altri undici campi in Libano, i palestinesi devono fare i conti con una condizione che non ha avuto miglioramenti sul piano dei diritti e della cittadinanza e che li tiene ancora lontani dal mercato del lavoro, così come dalla possibilità di acquistare una casa. E il campo, nonostante la qualità della vita non certo invidiabile, diventa una scelta pressoché obbligata per mantenere le proprie tradizioni e per senso di appartenenza: «Qui i palestinesi - conclude il direttore del Centro - si sentono esseri umani, qui io sono me stesso. Già se mi allontano cento metri comincio a sentire che quello non è il mio posto».
Dal Medio Oriente al Brasile. Il reportage fotografico «C’era una volta Quilombo», pubblicato su L’Espresso del 4 ottobre ci porta a Salvador de Bahia. Autore delle immagini, tutte in bianco e nero e di grande impatto, è Sebastian Liste, fotografo e sociologo particolarmente interessato alla cultura della resistenza, cioè alle modalità con cui gli esseri umani trasformano l’ambiente circostante per sopravvivere. Il complesso Galpao de Araujo Barreto, fabbrica dismessa di cioccolato non lontana dal centro città, è stata occupata nel 2003 da un gruppo di famiglie che vivevano per strada e che in questo mosaico di fabbricati pericolanti hanno trovato la possibilità di affrontare i problemi di droga, prostituzione e violenza con il sostegno della comunità. «Urban Quilombo hanno ribattezzato i sociologi questo progetto di convivenza fra sradicati. Dove quilombo si rifà al termine che identificava i nuclei di schiavi africani fuggiti dalle piantagioni brasiliane».
Questo singolare esperimento è stato però bruscamente interrotto l’anno scorso «dal realismo concreto del progresso»: al posto di Quilombo sta sorgendo un lussuoso centro commerciale. Ma i residenti espulsi e sparpagliati in nuovi insediamenti, pur trovandosi ad affrontare i problemi di sempre, possono farlo ora «con minor desolazione di un tempo. Forti di una nuova identità e di un senso civico di appartenenza che li ha riscattati dal rango di moderni schiavi».
Ottobre 2012
Esistono luoghi dove «l’ecosistema è in equilibrio, non esiste ingiustizia sociale e l’economia […] è rispettosa dell’ambiente »? Sembra rispondere affermativamente la coverstory di Sette - Corriere della Sera del 31 agosto, dal titolo Se imparassimo da loro?. Questi paradisi in terra vengono individuati nei sempre meno numerosi territori in cui «vivono i popoli non contaminati dalla Civiltà», circa «370 milioni di persone, divise in 5mila etnie diverse […], distribuite in 70 Paesi su 5 continenti». Circa il 6% della popolazione mondiale.
L’ampio servizio di Stefano Rodi, corredato dalle splendide immagini di Carol Beckwith e Angela Fisher e da interessanti box di approfondimento, fornisce una ricca messe di dati e informazioni che tengono insieme approcci disciplinari diversi (economico, ecologico, antropologico, sociologico) e descrivono, nelle diverse popolazioni, pratiche socio-economiche e spirituali connesse tra loro. La tesi di fondo dell’Autore tende a opporre l’ampia varietà di questo «mondo degli indigeni», descritto come portatore di elementi di positività, alla nostra problematica Civiltà, che gran parte di queste popolazioni indigene ha sterminato: «Il nostro mondo che balla sul baratro ambientale ha capito una cosa: i popoli indigeni giocano un ruolo chiave nella salvaguardia della natura. Le loro economie di sussistenza si basano su conoscenze e valori di conservazione di enorme interesse per un mondo contemporaneo che avanza senza bussola». Se, come ci informa Stefano Rodi, «in tutto il mondo ci sono ancora un centinaio abbondante di tribù mai contattate che si stanno rifugiando in zone sempre più impervie pur di stare alla larga da noi», non possiamo ignorare che altre persone percorrono il mondo globalizzato fino ad arrivare ad abitare, lavorare, studiare accanto a noi, con il loro bagaglio di saperi e idiomi a noi del tutto estraneo.
Come si dice rifugiato in bambarà, di Valerio Millefoglie (D - Repubblica, 14 luglio), ci racconta la storia di una di queste persone, Rasmany Ouedraogo, 39 anni, arrivato in Italia dal Burkina Faso come clandestino e che ora lavora per la Itc, «una cooperativa di interpreti e traduttori che si occupa di ricercare su tutto il territorio italiano conoscitori di lingue rare. Lui di lingue rare ne conosce almeno dieci. Le parole hanno qualcosa di elitario e chi condivide un linguaggio condivide un’intimità. Rasmany e i suoi colleghi sono le terre di mezzo fra mondi lontani, che per un giorno si raccontano». Il lavoro di traduzione viene svolto soprattutto nei Centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara), «limbi a metà fra il mondo di provenienza e quello di destinazione», dove «l’unica aria di casa è l’interprete». Tulugu, swahili, djoula, tuareg, hausa, urdu, punjabi sono lingue così poco conosciute nel nostro Paese da rendere impossibile a queste persone raccontare la propria storia fino all’arrivo del traduttore. Di genere molto diverso dal precedente - una sola immagine, testo breve, tutto basato sulle testimonianze di Rasmany e dei suoi colleghi - anche questo articolo si concentra sul valore della specificità altrui, mettendo in luce soprattutto il ruolo decisivo della lingua come porta di accesso privilegiata a questa specificità.
Agosto-Settembre 2012 Storie di ordinaria integrazione, storie positive - verrebbe da dire - che parlano di una scuola e di un Paese dove l’«altro» può trovare accoglienza e crescere, nonostante tutto. «Sorpresa scuola: i primi della classe sono filippini»: così viene annunciato in copertina, su Panorama del 20 giugno, un ampio servizio intitolato «La più brava della classe è Claire», dedicato agli studenti filippini che frequentano gli istituti scolastici di Milano e di Roma. Il testo, firmato da Costanza Rizzacasa D’Orsogna, è accompagnato dalle immagini dei sei ragazzi - dai 9 ai 18 anni di età - interpellati direttamente dalla giornalista: volti e storie che confermano e arricchiscono quanto emerge dallo studio, condotto dalla rivista e dal Ministero dell’Istruzione, su oltre un migliaio di studenti filippini su un totale di 19.766 presenti nelle scuole italiane nel 2011 (dalla scuola dell’infanzia alle medie superiori). Risultati più che lusinghieri per la comunità studentesca filippina: «Nella scuola media il 57% degli studenti sondati vanta voti tra il 7 e l’8, mentre alle superiori il 67% ha la media del 6-7 e alle elementari circa la metà prende tutti 9 e 10. Studenti modello, insomma». Un dato nuovo rispetto al recente passato, che viene spiegato con una serie di ragioni: 1) una presenza più continuativa nel sistema scolastico italiano dei ragazzi filippini che in precedenza, raggiunta l’età della prima scolarizzazione, «venivano quasi sempre rispediti nelle Filippine, per essere poi nuovamente sradicati quasi adolescenti, richiamati in Italia da genitori ormai estranei»; 2) una maggiore e migliore offerta di strumenti di integrazione da parte del nostro Paese: dal coinvolgimento nella vita degli oratori a programmi scolastici mirati, per arrivare a insegnanti attenti al loro coinvolgimento attivo nel percorso scolastico e nella vita della classe; 3) le caratteristiche e i valori della società e della cultura d’origine: una società che investe molto nell’istruzione e che ha un sistema di valori molto alto («Gli studenti filippini non copiano né imbrogliano mai», commenta un professore di una scuola media romana). A questo si aggiunge la volontà di riscatto di questi ragazzi che spesso vedono i genitori - diplomati o laureati - ammazzarsi di fatica come domestici per provvedere alle necessità della famiglia e permettere ai figli di studiare. A fronte di un servizio così articolato e ben costruito, risultano ancora più sorprendenti alcuni dettagli redazionali che paiono quasi sovrapposti ideologicamente e un po’ forzosamente al contenuto dell’articolo: dall’occhiello «Il sorpasso», che ricorre nell’intestazione delle pagine del servizio, al trafiletto dedicato alla graduatoria mondiale 2011 delle università, intitolato «Se l’Occidente perde terreno: la mondializzazione ha effetti indesiderati. Almeno per noi», significativamente introdotto con un riferimento allo scontro di civiltà profetizzato da Huntington. Per concludere con un singolare invito al lettore: «Hai in classe uno straniero più bravo di te? Raccontalo sulla pagina Facebook di Panorama».
Giugno-Luglio 2012
Analizziamo quattro servizi sul tema del viaggio, con approcci molto diversi tra loro: «Se ti affacci a un belvedere, di colpo capisci tutto. Di te» (Io donna, 21 aprile); «Petra, la mia rosa del deserto» (Donna moderna, 11 aprile); «India per principianti» (Vanity Fair, 9 maggio); «Visitare tutto il mondo a zero euro? Si può. Ma c’è da zappare» (il Venerdì, 13 aprile). Ciascuno presenta il rapporto tra il viaggiatore e i nuovi mondi esplorati in maniera differente. Il belvedere è il luogo simbolo del primo articolo, firmato dallo scrittore Andrea Bajani: punto privilegiato di pura osservazione, spesso preparato allo scopo (una panchina, una balaustra, una ringhiera...), dal quale il mondo (paesaggio naturale o antropizzato) va osservato, come se un diaframma invisibile ci separasse da ciò che vediamo, esterno a noi. Ma nel quale possiamo trovarci, perché a volte è per questo che esploriamo il mondo. Come recita il sottotitolo: «Davanti a un ghiacciaio in Patagonia, a una valle canadese o magari al Duomo di Firenze, resistete alla tentazione di fotografare e perdetevi nell’orizzonte. Perché solo così scoprirete il vostro limite (e il vostro potere)». Nel secondo servizio fa capolino il miraggio del viaggio sicuro: così la proposta di un tour in un Paese dell’agitato Medioriente viene chiosata ricordando che andare in Giordania «è come andare in Svizzera». In grado di offrire una rassicurante distanza da turbolente vicende umane, questo Paese «è un deserto tagliato da autostrade dritte e ben tenute, ma di colpo, in certe zone, diventa un giardino di aranci, [e] si copre di cedri, di eucalipti, di pistacchi». Il viaggiatore/giornalista (Antonella Boralevi) attraversa una realtà quasi virtuale, dove le poche fotografie si concentrano sui fasti architettonici del passato, privi di qualsiasi presenza umana. Il terzo testo immerge il lettore nel «caos indiano», a partire dalla capitale: «Bici, carretti, motorette, gente a piedi, animali», «tutti cercano di vendere tutto, tutti insistono. C’è carne esposta, spezie fosforescenti. Voci, rumori, profumi. Un bazar unico». Qui si è dentro una realtà viva, con i suoi rischi e «pure il ragazzino sul risciò gialloverde che sgasa lungo il Janpath (il Viale del popolo) riconosce che senza specchietti retrovisori, in questo marasma è necessaria un po’ di “Good luck”». L’itinerario proposto si svolge nel nord dell’India e garantisce, accanto a rassicuranti strutture alberghiere di alto livello, «esperienze particolari e approfondimenti della realtà locale per i viaggiatori»: un singolare mix di turismo di lusso e volontà di conoscere da vicino complessità e contraddizioni della «più grande democrazia del mondo». Nel quarto servizio la proposta è quella di «diventare per un breve periodo contadini alla pari, ricevendo cibo e alloggio in cambio di lavoro in fattorie biologiche», attraverso l’associazione britannica Wwofer con gruppi attivi in 53 Paesi (vedi anche pag. 70 in questo numero di Popoli). In questo modo il viaggio in una diversa cultura viene fatto dentro le sue pratiche quotidiane. Così, dall’ascesi alla zappa, ognuno può scegliere il suo modo di partire senza dimenticare, come scriveva Proust quasi un secolo fa, che «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
Maggio 2012
Questo mese proponiamo due reportage su altrettante realtà molto distanti dal nostro quotidiano, per coglierne complessità e contraddizioni, spesso frutto di una globalizzazione economica rapida e poco governata. Il primo è uscito su Sette il 15 marzo con titolo La Siberia si inchina ai signori di Pechino: otto pagine di splendide immagini del giovane fotografo cinese Justin Jin, con il commento di Marco Del Corona, corrispondente del Corriere della Sera dalla Cina, sulla rapida e profonda trasformazione di una regione tra Russia e Cina, zona di confine tra due Estremi Orienti. «Due fratelli separati che si conoscono senza riconoscersi più. […] Le stesse foreste, una volta. Le stesse distese fatte d’alberi e orizzonte […]. Adesso è diverso. I boschi cadono uno dopo l’altro sotto i colpi delle motoseghe, la terra dove non c’è più nulla sta diventando un eldorado periferico ma profittevole, e i subalterni di una volta, i cinesi, si ritrovano padroni del gioco, scalzando i russi dalle loro rendite di posizione». Per una sorta di «globalizzazione a due vie», man mano che il rublo scivolava nell’irrilevanza e i capitali si accumulavano in Cina, le città di confine - Khabarovsk e Manzhouli - cambiavano fisionomia. Così la cinese Manzhouli, fino a vent’anni fa semplice villaggio di contadini, è oggi una città di 200mila abitanti fitta di grattacieli; mentre nella russa Khabarovsk si va consolidando la presenza di immigrati cinesi, che spesso occupano posizioni di rilievo a livello economico, e i locali fuggono all’estero: i 9 milioni di russi che nel 1990 vivevano in Siberia (37% del territorio russo) in vent’anni si sono dimezzati. Lo slum? Uno sporco business: è il titolo volutamente provocatorio del secondo reportage, pubblicato su D-Repubblica del 17 marzo. Autore del testo Franco La Cecla, antropologo e architetto, mentre le immagini, tutte di grande impatto, sono di Adam Hinton e riprendono diversi aspetti della vita di uno slum di Mumbai, in India: dall’insediamento di un gruppo di contadini alla lettura mattutina dei giornali gratuiti, dall’attività del barbiere alla selezione della plastica da parte delle donne. La baraccopoli è Dharavi, immortalata dal film The Millionaire: «Una gigantesca distesa di lamiere, fumi, polvere, cartoni, ferri, che per buoni cinque minuti precede la pista d’atterraggio» di Mumbai, la «gold city» che attrae migliaia di nuovi abitanti ogni settimana. E qui il reportage ci introduce nel singolare dibattito che si sta sviluppando attorno a questa realtà, a partire dalle posizioni di coloro che non ci stanno a definire Dharavi una baraccopoli: «Per chi ci abita non è uno slum, ma un quartiere modello che produce ogni anno 700 milioni di dollari, ha una densità di 300mila persone per chilometro quadrato, ma nessuno sta con le mani in mano, qui si ricicla buona parte dell’immondizia della città, si conciano pelli e si rifornisce di manufatti, cibo, biancheria pulita il resto della città. Dentro Dharavi c’è una rete di relazioni che ricostruisce il tessuto dei villaggi da cui buona parte di questi vecchi e nuovi insediati arriva». Per La Cecla si tratta di valutazioni che, se da una parte mettono in luce la straordinaria capacità di resistenza umana e lo spirito di iniziativa dei residenti, dall’altra rischiano di lasciare in ombra il prezzo pagato quotidianamente. Vivere in uno slum è «certo molto meglio che morire di fame in una campagna indiana, uccisi dalle politiche agricole del Fmi, ma si tratta comunque di condizioni subumane. E soprattutto, a essere atroce - conclude - è la filosofia della nuova povertà come risorsa», una filosofia che induce a un pronostico amaro: «Saranno i poveri a salvare il mondo e l’economia: a spese loro».
Aprile 2012
Fukushima un anno dopo: Il Giappone dei miracoli, come recita un occhiello di Panorama del 7 marzo 2012, oppure Il crepuscolo del Giappone, come titola il reportage de L’Espresso dell’8 marzo? Immagini, titoli, rapporto tra immagini e testo, stile, tipo di discorso: i due servizi non potrebbero utilizzare in forma più diversa la comunicazione giornalistica per trattare lo stesso tema. Vediamo come. L’ampio servizio di Panorama è costituito da tre articoli principali i cui titoli dichiarano immediatamente la linea politica complessiva: 1) Solo un anno per rinascere più forte di prima; 2) E si sono autogovernati senza i politici; 3) Il rischio nucleare? Circoscritto. Il ruolo della documentazione fotografica, con immagini degli stessi luoghi (la città di Onagawa, l’aeroporto di Sendai, un ponte nel distretto di Miyagi) a pochi giorni dallo tsunami dell’11 marzo 2011 e nei mesi successivi, è soprattutto quello di testimoniare la velocità del processo di ricostruzione. Il discorso vuol essere oggettivo-scientifico: sono riportate numerose statistiche, in primo luogo di carattere economico. Il discorso sul nucleare è fatto guardando sia alle necessità energetiche del Paese e al fatto che «il ritorno ai combustibili fossili [ha fatto] finire in rosso l’interscambio commerciale», sia al rischio di contaminazione radioattiva. Il taglio «oggettivo» dell’argomentazione viene rafforzato dalle competenze delle persone citate: Junji Tsuchiva e Shunpei Takemori, docenti universitari, Vincenzo Petrone, ambasciatore d’Italia a Tokio, Goshi Hosono, ministro dell’Ambiente, Marco Staccioli, imprenditore italiano, Katsunobu Sakurai, sindaco di una cittadina della zona off limits, Tatsuo Hirano, titolare del nuovo ministero per la Ricostruzione. Oggetto della descrizione è il «Giappone-Paese», visto nel suo complesso, e gli attributi più ricorrenti per descriverlo sono: ricco, disciplinato, coeso, tenace. Anche titolo e sottotitolo de L’Espresso esplicitano il punto di vista di chi scrive: Il crepuscolo del Giappone. Ritorno a Fukushima a un anno dallo tsunami e dalla emergenza nucleare. Per scoprire un Paese che non crede più in se stesso. E dove molti hanno un sogno: andarsene in cerca di un futuro migliore. Tuttavia lo stile complessivo del discorso punta più sulla soggettività e sul coinvolgimento emotivo. Le grandi fotografie di Pierpaolo Mittica, in bianco e nero e a forte contrasto, occupano 6 delle 8 pagine complessive del reportage. Alberi spogli, cielo plumbeo, una vetrina infranta, carcasse di animali, strade deserte o percorse da uomini avvolti da tute bianche, copricapi e mascherine anti radiazioni: scelte stilistiche e soggetti contribuiscono a creare un’atmosfera drammatica. Il testo, firmato da Pio D’Emilia, giornalista italiano che vive in Giappone da oltre vent’anni, ha più lo stile della testimonianza e della denuncia, attraverso la quale l’autore vuole restituirci il dramma delle persone la cui vita è stata stravolta dallo tsunami e dall’emergenza nucleare. Le persone cui dà parola l’articolo sono semplici cittadini: Seiji Murata, allevatore di Fukushima, Naoko Takahara, che non ha lasciato la sua casa a pochi chilometri dalla centrale, Michio Watanabe, che invece vuole lasciare il Paese. «Sfiducia», «inefficienza», «bugie», «calcoli politici» sono termini ricorrenti nel servizio, mentre pochi e senza fonte sono i dati citati.
Marzo 2012
Nigeria, un altrove geografico evocato in tre modi molto diversi. A cominciare dall’editoriale di Andrea Riccardi sul n. 3/2012 di Famiglia cristiana, intitolato In Nigeria i cristiani soffrono anche per noi. I fatti riguardano le violenze del gruppo estremista islamico Boko Haram nei confronti dei cristiani, gli assalti a chiese e abitazioni. L’attenzione di Riccardi - fondatore della Comunità di Sant’Egidio e ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione - non si concentra sulla narrazione degli eventi, né sulla lettura del contesto e sull’analisi della cause. Lo stile è piuttosto quello di una riflessione e di un appello che chiama in causa tutti coloro che, pur vivendo in Paesi molto lontani e diversi dalla Nigeria, hanno in comune la stessa fede, condividono la stessa identità religiosa: «I cristiani europei non possono dimenticare quanto avviene in Nigeria, anche se viene facile distrarsi, magari occupandosi solo delle nostre questioni, come quelle, pur molto serie, connesse alla crisi economica». Un’attenzione e una solidarietà che non può non allargarsi, secondo Riccardi, a tutti i cristiani perseguitati in ogni parte del mondo. Anche Sette, sul terzo fascicolo del 2012, si occupa di Nigeria, dedicando una «Didascalia d’autore» a un tema molto diverso da quello dei conflitti religiosi e precisamente alla «rivolta della benzina » che ha segnato il mese di gennaio. Il commento è affidato al giornalista esperto d’Africa Pietro Petrucci, che in poche righe sintetizza con efficacia la realtà economica e sociale del «primo Paese in Africa per abitanti (160 milioni) e barili di petrolio giornalieri (2,4 milioni), nonché la più grande democrazia parlamentare del continente, che prodigiosamente sopravvive in condizioni proibitive: una società come una immane pentola a pressione, dove ribollono minacciosamente tensioni etniche e religiose […]. La Nigeria sarebbe esplosa da tempo se non ci fosse a tenerla in piedi l’“economia informale”, la strabiliante capacità della gente di arrangiarsi». L’abolizione dei sussidi statali alle importazioni dei carburanti e il conseguente raddoppio del prezzo della benzina ha scatenato una rivolta molto simile alle rivolte del pane scoppiate un anno fa in Tunisia e Algeria. Terzo e ultimo articolo sulla Nigeria è il corsivo di Pietro Veronese su Il Venerdì del 3 febbraio - significativamente intitolato La rivolta dei nigeriani: questa sì è primavera - che torna sulla rivolta della benzina e, a vicenda conclusa, ne traccia un bilancio decisamente positivo. «Non hanno abbattuto un regime, soltanto il prezzo della benzina. Tuttavia quelle decine di migliaia di nigeriani scesi in piazza (...) è stata davvero una vittoria. Una vittoria di popolo». Ma l’aspetto più interessante è quello che Veronese sottolinea nelle ultime righe del suo corsivo e che ci ricollega in maniera inattesa ai temi dell’editoriale di Famiglia cristiana: «Mentre nel nord della Nigeria proseguono gli attacchi degli estremisti islamici contro i cristiani, durante le manifestazioni contro il caro-benzina ci sono stati numerosi episodi di solidarietà. Quando i musulmani si mettevano a pregare genuflessi in mezzo alla strada, i cristiani gli facevano cordone intorno per proteggerli simbolicamente dalle forze dell’ordine. A Kano i fedeli di Allah hanno reso omaggio alle chiese, visitandole durante il rito domenicale. Questa sì che è primavera».
Febbraio 2012
Uguale/diverso. «Tutto è relativo. Prendo come esempio il Capodanno: in gran parte del globo terrestre, dove si adotta il calendario gregoriano, l’inizio del nuovo anno coincide con il 1° gennaio. Ma […] fino al 1700 in Inghilterra l’inizio dell’anno nuovo si festeggiava il 25 marzo, a Venezia il 1° marzo, in Sardegna lo si celebrava secondo lo stile bizantino che lo indicava al 1° settembre, infatti in sardo settembre si chiama Caputanni (dal latino Caput anni). E veniamo al presente. Il Capodanno cinese, o Capodanno lunare, si festeggia in diversi Paesi dell’Estremo Oriente in corrispondenza del novilunio che cade tra il 21 gennaio e il 19 febbraio. Il Capodanno islamico si festeggia il primo giorno del mese di Muharram e può corrispondere a qualsiasi periodo dell’anno gregoriano […]. L’anno nuovo indù si celebra a novembre. Il Rosh Hashana, Capodanno ebraico, cade nel mese di settembre.» Siamo su Donna Moderna del 4 gennaio, dove la condirettrice Cipriana Dall’Orto in Buon anno. E viva la diversità, prende spunto da una festa universale per mostrare la varietà di riferimenti culturali e religiosi che l’accompagnano e conclude con l’auspicio «che la nostra società non abbia paura del “diverso” e accolga chi arriva da noi, affamato e disorientato, come un portatore di ricchezze». D’altra parte sono gli stessi meccanismi della globalizzazione economica ad annullare diversità e tradizioni, omologando e banalizzando comportamenti e riferimenti culturali secondo una logica consumistica. Per esempio, dove sta di casa Babbo Natale? In Cina naturalmente. Su D - La Repubblica del 21 dicembre, Giampaolo Visetti (Grazie all’est è Natale) ci racconta che «negli ultimi cinque anni il 70% dei prodotti natalizi che si vendono nel mondo sono stati fabbricati in Cina. Yiwu, nello Zhejiang, è una città costruita per soddisfare la richiesta globale di atmosfere natalizie. […] Nessun cinese sa perché gli occidentali mettano in scena uno spettacolo tanto costoso e così ripetitivo. Hanno capito però le opportunità di business spalancate dal Natale e sono presto diventati la culla di tutte le feste del mondo». Dalle feste alle proteste globali: anche a questo livello si possono individuare analogie e differenze, come suggerisce Moises Naim in C’è indignato e indignato su L’Espresso del 28 dicembre. «Le piazze del mondo piene di gente sembrano uguali. Ma non è così. Nei Paesi avanzati c’è una classe media che difende il suo benessere. In quelli poveri è un ceto medio in ascesa a protestare. Altrove c’è chi lotta contro un oppressore. Tutti hanno buone ragioni». Quanto agli elementi comuni che caratterizzano queste proteste Naim ne indica soprattutto due. In primo luogo si tratta di movimenti spontanei e collettivi senza leader carismatici. Il secondo aspetto comune riguarda il rapporto tra potere e cittadini: «Oggi tutti sappiamo di più. I più potenti devono stare molto attenti e tenere ben presente che ora ci sono a disposizione dei meccanismi molto più sensibili per individuare le menzogne […] e si è diffusa una particolare intolleranza verso chi pronuncia discorsi privi di credibilità. […] Le manifestazioni che abbiamo visto nelle varie parti del mondo sono intrise di una nuova e furibonda allergia alla falsità. E di un’iraconda intolleranza alla disuguaglianza. C’è da augurarsi che non passino di moda». Un augurio che sottoscriviamo in pieno.
Gennaio 2012
Una globalizzazione che mescola le carte, che provoca inedite contaminazioni, che spiazza ogni lettura convenzionale della realtà sociale e culturale dell’«altro»: questo il filo rosso dei tre servizi riletti questo mese da Carta canta. A cominciare dall’emblematica didascalia d’autore pubblicata su Sette del 1° dicembre: Un ragazzo tutto kefiah e Pepsi Cola. La suggestiva foto commentata dal giornalista e scrittore Paolo Di Stefano porta il lettore al Cairo, in piazza Tahrir, epicentro degli scontri che hanno segnato la vigilia delle elezioni legislative. Una piazza ingombra «dei frammenti di scontri infiniti» con «i bambini in assetto da battaglia», come quello ritratto in primo piano: «Fazzoletto al naso per evitare di respirare il fumo aspro dei lacrimogeni, due bottiglie in mano pronte a essere usate come armi di difesa, Sprite e Pepsi Cola, simboli del sospirato Occidente, […] due occhi neri che ci guardano […]. Alle sue spalle le insegne del McDonald’s e della Pizza Hut. I segni della modernità americana si sovrappongono ai colori tradizionali della kefiah». E nello sguardo del ragazzo si mescolano la paura del presente, il timore che nulla possa cambiare, la speranza in un futuro liberato. Anche il secondo servizio, pubblicato su Panorama del 7 dicembre e intitolato Siamo anche noi indignados, non terroristi, è dedicato all’Egitto, in particolare ai cambiamenti nel movimento dei Fratelli musulmani. L’articolo dà la parola a quella componente giovanile e femminile che, contro il parere dei dirigenti, ha preso parte alle proteste e vorrebbe accelerare la transizione democratica. «Se la rivoluzione ha permesso ai Fratelli musulmani di farsi conoscere meglio - scrive Matteo Fagotto -, ha anche esposto i suoi membri alla contaminazione di idee diverse. Oggi i giovani chiedono cambiamenti radicali dell’organizzazione, invocano un ruolo di maggior spessore per le nuove generazioni e per le donne, l’elezione dei dirigenti », incontrando talvolta resistenze e rifiuti. D’altra parte «lasciare il movimento non è facile. Diventa parte della tua vita quotidiana», come sottolinea uno dei giovani intervistati. A concludere il servizio le parole di fiducia della trentenne Marwa Mohesen, che fa parte della sezione del movimento che si occupa di problemi sociali e che si dice convinta che «i Fratelli musulmani cambieranno senza fratture tra giovani e vecchi […] non a causa della rivoluzione ma grazie alla conquistata libertà». Di altro tenore e su tutt’altro tema il reportage de L’Espresso dell’8 dicembre: Nuovo cinema Africa. È un ampio servizio sul boom della produzione cinematografica commerciale africana accompagnato dalle belle immagini scattate da Andrea Frazzetta. Scopriamo che dopo Hollywood e Bollywood, gli studios di nollywood a Lagos, in nigeria, sono al terzo posto nel mondo per fatturato e superano gli americani per numero di pellicole prodotte. Sembra emergere, almeno in campo cinematografico, una sorta di ribaltamento di ruoli nei rapporti tra Africa ed Europa. A una cinematografia d’autore, apprezzata da una ristretta cerchia di spettatori colti europei e incentivata in periodo post-coloniale da Francia e Belgio per arginare l’imperialismo culturale anglofono, è subentrata nell’ultimo decennio una cinematografia commerciale di grande popolarità: «nollywood è la legge del mercato che avanza e crea un linguaggio e un immaginario comuni tra chi è rimasto e chi se ne è andato in Europa in cerca di fortuna». Si vendono fino a 500mila dvd in poche settimane e i prodotti invadono anche i quartieri africani delle città europee.
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