


| Questo mese abbiamo letto i numeri 10, 12 e 13 di Vanity
Fair, usciti rispettivamente il 19 marzo, il 2 e il 9 aprile.
Il settimanale, versione italiana dell’omonimo mensile statunitense
che tratta di spettacolo, moda e bellezza senza però dimenticare cultura,
politica e notizie, è suddiviso in nove sezioni - «social», «first»,
«week», «storie», «spy», «style», «beauty», «living» e «show» - che, a
partire dal titolo inglese, evocano il mondo dello show e delle star,
qui raccontate e presentate come modello a cui ispirarsi.
Vanity Fair è un settimanale più da guardare e sfogliare che da
leggere, una rivista dove l’immagine è centrale non solo per i temi
trattati, ma anche per il numero di servizi fotografici e di fotografie
che accompagnano il testo.
Da notare che la pubblicità occupa un numero di pagine quasi pari
a quello degli articoli: su una media totale di circa 230 pagine per
uscita, 125 sono quelle di articoli e 105 quelle di pubblicità.
Tra i settimanali analizzati, Vanity si distingue in negativo per offrire
la copertura internazionale più bassa: solo il 5% dei pezzi è dedicato
all’«altro» e allo «straniero», articoli che si concentrano soprattutto
nella sezione «week» dove si trova «quello che è successo (e che
succederà) di importante, divertente, emozionante, curioso...».
Come tutte le notizie, anche quelle che non riguardano l’Occidente
sono presentate come una novità-rivelazione.
È questo il caso di Per salvarlo basta un caffè (2 aprile) dove la guerra
e la malnutrizione che colpiscono la Repubblica Centrafricana sono
raccontate dal direttore esecutivo del World Food Program, accreditato
«tra le cento donne più potenti al mondo secondo Forbes». Ne esce
un quadro abbastanza stereotipato in cui «il costo di un caffè al bar
può sfamare una famiglia per una settimana» e la speranza è riposta
nei bambini «vestiti di stracci ma puliti e sorridenti».
In Scusa, ho ucciso (9 aprile), servizio per ricordare i vent’anni dal
genocidio in Ruanda, prevale la dimensione dell’esclusiva, attraverso
la scelta di storie esemplari. Come il pastore protestante che
ha cercato gli assassini della sua famiglia, li ha perdonati facendo
della «riconciliazione il perno su cui ruota la sua vita». O Lucy, una
tra le tante donne vittime di stupri, e ora malata di Aids, che però
ha ritrovato la forza di vivere grazie alla figlia, inizialmente rifiutata
perché frutto della violenza. Ad aggiungere valore al testo, ci sono i
protagonisti del racconto, ritratti per l’occasione da Vanity.
Per parlare di «esteri» viene anche utilizzata la formula immagine più
didascalia. Si tratta di foto di buona qualità che attirano il lettore
perché curiose, come per le diecimila donne filippine che a Manila,
in occasione dell’8 marzo, si sono disposte per formare una composizione
da guinness (19 marzo).
In generale se lo spazio riservato alla parola è abbastanza limitato, il
punto di vista critico sull’attualità, che sembra affiorare nelle rubriche
fisse affidate a varie firme, scompare quando lo sguardo è rivolto
allo «straniero». I fatti che accadono in Africa, America Latina e Asia
non sono oggetto di grande attenzione e approfondimento o perché
non fanno notizia o, più probabilmente, perché le vicende di questi
Paesi non sembrano abbastanza interessanti e smart per una rivista
come Vanity che vorrebbe seguire e, nello stesso tempo, anticipare
le tendenze.
P. Gelatti e E. Schiocchet |
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