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Sapori&Saperi
Anna Casella
Antropologa
Il tofu rinnova la cucina beninese
Una donna africana china sul fuoco: l’immagine della tradizione immutabile. Una visione un po’ stereotipata pensa che la cucina nei Paesi del Sud del mondo si ripeta sempre uguale a se stessa. Che utilizzi ingredienti, metodi e tecniche tramandati da secoli e non subisca né trasformazioni, né contaminazioni. Perciò, applicando ai fornelli la distinzione a noi trasmessa da Claude Lévi-Strauss tra civiltà calde e fredde, si pensa a cucine «calde» (le nostre) nelle quali la creatività è la regola, e «fredde» quelle dei popoli non occidentali, legate inesorabilmente a schemi arcaici. Invece, in cucina le sorprese non finiscono mai. E, dunque, può capitare di incontrare a Djoguagbo, un sobborgo periferico di Bohicon-Abomey nel Benin centrale, donne intente a produrre formaggio di soia.
Il tofu del Benin è sicuramente una conquista recente. Facile pensare che sia conseguenza di quella tragica trasformazione, detta landgrabbing, che consegna le terre africane ai coltivatori di soia cinesi, indiani, brasiliani in cerca di spazi per la loro agricoltura estensiva. La soia infatti (glycine max L.), conosciuta e coltivata in Estremo oriente fin dagli albori dell’agricoltura, non ha mai fatto parte della dieta alimentare africana (e neppure, a ben vedere, di quella europea, se non in tempi moderni e legati alla diffusione di stili di alimentazione alternativi). Attente al nuovo, le donne di etnia fon hanno aggiunto la soia alle coltivazioni orticole di cui sono esperte come il mais (zea mays L.), la manioca (manihot esculenta) e l’igname (dioscorea L.).
E, per quanto riguarda la complessa arte della trasformazione in «formaggio», di sicuro ha giovato loro l’esperienza dei peul, i popoli pastori del Nord. Qui, il formaggio (di latte vaccino) chiamato wagassi o warangashi o anche ghasiigue nella lingua fulfuldé, viene lavorato utilizzando come caglio l’estratto delle foglie della mela di Sodoma (calotropis procera). Allo stesso modo in Nigeria, e servendosi invece della papaina derivata dalle foglie di papaya (carica papaya), i pastori fulani producono il wara o warankasi. Viene dalla tradizione il tofu equatoriale prodotto all’ombra dei palazzi di terra rossa dei tredici re del Danxomè, ed esprime una creatività tutta moderna.


La ricetta
Un «formaggio» senza latte
Per preparare questo formaggio si debbono anzitutto mettere a bagno per molte ore i semi di soia.
Quando sono reidratati vanno macinati umidi: la farina raccolta in un panno bianco, va lasciata per un po’ di tempo in acqua fredda, strizzata e di nuovo rimessa in acqua per tre volte.
Posta una pentola d’acqua sul fuoco (circa dieci volte la quantità della farina) si getta la soia e la si fa bollire per 15-20 minuti. Si filtra la purea con un panno di mussola per eliminare il residuo insolubile (crusca o polpa) e la si rimette a bollire.
L’operazione va ripetuta più volte, con pentole pulite, finché il composto risulti denso a sufficienza.
Il «formaggio» viene poi messo in un panno, collocato entro due assi di legno e pressato con pesi perché esca l’acqua in eccesso, e lasciato riposare per indurirlo.
Il formaggio di soia può essere aromatizzato con sale, pepe, aglio (o dado se si preferisce), olio rosso di palma e olio di arachide. Si conserva per lunghi periodi.
© FCSF – Popoli, 1 novembre 2012