A insistere sull’identità in cucina si rischiano sorprese. Noi europei, ad esempio, volendo riandare alle origini, dovremmo fare a meno di pomodori e polenta, di cacao e peperoncino, dei tacchini che ci vengono dalle Americhe. Dovremmo fare a meno anche di pesche e maiale, dei cetrioli arrivati dall’Asia, del caffè africano, delle spezie, ecc.
Ci rimane il cavolo. Più europeo del cavolo non c’è proprio nulla. I suoi antenati crescono ancora nell’isola di Helgoland, nel Mare del Nord e da lì si sono diffusi ovunque. Ma ci volle la fantasia dei contadini germanici per moltiplicare il cavolo selvatico (Brassica Oleracea) nelle centinaia di varietà oggi conosciute. Dapprima ci fu il cavolo a foglia (come il nero toscano), poi si diffusero i cavoli «a testa», cioè il cavolo cappuccio e la verza derivati dalla trasformazione della gemma principale (Brassica oleracea var. capitata). Dalla mutazione della infiorescenza vennero prima il broccolo e poi il cavolfiore (Brassica oleracea var. botrytis), dall’ingrossamento del fusto derivò il cavolo rapa (Brassica oleracea var. gongylodes), dallo sviluppo delle gemme laterali il cavoletto di Bruxelles (Brassica oleracea var. gemmifera). E ci sono le varianti regionali, come il Vinschger Kobis della Val Venosta, il cavolo cinese, la cima di rapa del Mediterraneo (Brassica rapa sp.) e il cavolo palma, l’Ostfriesische Palme della Frisia Orientale. Una mutazione incessante.
Barili di crauti accompagnarono Cristoforo Colombo e tutti i navigatori europei lungo le rotte degli oceani: con i loro minerali e le vitamine permisero agli equipaggi di mantenersi in salute e di approdare, appunto, in ogni angolo del mondo.
I popoli del mare del Nord non dimenticano le origini autoctone del cavolo. Nei gelidi pomeriggi invernali quando vogliono fare festa radunano gli amici e, in corteo, tirando carretti pieni di cibo e di bottiglie, si dirigono verso la campagna, fermandosi a ogni angolo per brindare e giocare. È il Kohlfahrt, il «viaggio del cavolo», inventato nei secoli scorsi dai ricchi delle città che finivano la scampagnata nelle osterie a mangiare cavolo riccio e salsiccie (pinkel). Con il tempo il Kohlfahrt si è arricchito di usanze, ad esempio quella di eleggere il re e la regina del cavolo e di offrire doni ai mangiatori più robusti. Anche le trattorie di campagna si adeguano cucinando enormi quantità di cavolo riccio. Perché, come dice il proverbio: «meglio far scoppiare la pancia che far avariare i cavoli» (M. Krause, G. Falschlunger, V. Danese, Vivere il sapere. Cavoli, Provincia di Bolzano, 2010).
La ricetta GRÜNKOHL UND PINKEL Prendere un cavolo cappuccio, tagliarlo sottilmente, scottarlo in acqua bollente e scolarlo. In una padella far rosolare della pancetta con una mezza cipolla tagliata sottile. Aggiungere il cavolo e far cuocere a fuoco vivace per pochi minuti poi aggiungere acqua, coprire e continuare la cottura a fuoco lento per mezz’ora con del brodo di carne. Salare e pepare, aggiungere senape, salsiccie, carne o una fetta di prosciutto e continuare la cottura per altri trenta minuti. Servire con patate bollite o rosolate in burro e zucchero.
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