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Sapori&Saperi
Anna Casella
Antropologa
Miele, tra mito e storia
Secondo la mitologia greca, toccò ad Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, il compito di insegnare agli uomini l’arte dell’apicoltura. Ma, prima ancora, i raccoglitori del Neolitico già possedevano tecniche per rendere inoffensive le api selvatiche, che nidificavano negli anfratti delle rocce o sugli alberi, e impossessarsi del prezioso alimento, come documentano le pitture rupestri della Cueva de la Araña, in Spagna, o quelle dell’Africa australe. Tecniche ancora oggi utilizzate dagli arditissimi raccoglitori nepalesi che si inerpicano sulle rocce ad altezze vertiginose con scale di corda e cesti di vimini.
Frutto della raccolta o dell’abilità dell’apicoltore, il miele è stato oggetto di dono e di commercio. Israele, come ricorda la Bibbia (Gen 43,11), invita i figli a portare in dono «un po’ di balsamo, un po’ di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle». Scrive il profeta Ezechiele, parlando della Palestina: «Con te commerciavano Giuda e il Paese di Israele. Ti davano in cambio grano di Minnit, profumo, miele, olio e balsamo» (Ez 27,17). Apicoltori esperti erano gli egizi per i quali la laboriosità delle api evocava quella del loro sovrano. Questi insetti hanno rappresentato sia la capacità di difesa (ad esempio sugli scudi dei soldati greci) sia la dignità regale: basti ricordare il pendente ritrovato nel sito archeologico di Mallia (Creta, nella foto) e risalente al 1700 a.C., che raffigura due api con un favo e una goccia di miele. Ma se torniamo ai miti, la raccolta del miele e l’apicoltura raccontano piuttosto la faticosa costruzione di regole sociali. In un mito dell’etnia bororo, ricordato da Lévi-Strauss, il miele selvatico offerto ai membri del clan diventa immangiabile perché i raccoglitori avevano infranto il tabù sessuale: un riferimento alla relazione tra dono del cibo e dono della donna. Anche Aristeo, che aveva rubato alla ninfa Euridice, sarà punito con la distruzione dei suoi alveari.
Miele amaro anche quello del mito karajà sull’origine della vita breve. Racconta di uomini che vivevano nelle viscere della terra. Incuriositi dal canto di un uccello della savana, essi vollero esplorarne la superficie. Vi trovarono frutti, api e miele. Alcuni, osservando anche del legno secco, segno della presenza della morte, decisero di ritornare da dove erano venuti, altri rimasero. Ed è per questo, conclude il mito, che gli uomini, discendenti di quelli che sono rimasti, muoiono prima di coloro che tornarono nel mondo sotterraneo.

La ricetta
CARNE, SPEZIE E MIELE
Piatto arabo diffuso nel Mediterraneo e tanto antico da essere riportato su testi di culinaria egiziana e andalusa del XIII secolo,
il tabâhaja si distingue per la disinvolta mescolanza di miele e spezie. Sbollentate la carne di agnello, fatela cuocere in un poco di olio, poi versatele sopra il suo brodo. Mescolate miele, pistacchi, amido, zafferano, pepe, un goccio di aceto. Aggiungete la mistura alla carne e fatela cuocere finché è inspessita. Si può anche utilizzare una miscela di spezie detta atraf tib, composta da alloro, noce moscata, macis (fiore della noce moscata), chiodi di garofano, boccioli di rosa, pepe, zenzero e cardamomo.

© FCSF – Popoli, agosto-settembre 2009