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Sapori&Saperi
Anna Casella
Antropologa
Quando la Bibbia entra in cucina
Occorre essere un po’ esperti di Sacre Scritture per cucinare alla maniera ebraica. Perché in effetti la massaia, la balabuste, ha tra i suoi doveri quello di armonizzare le preparazioni culinarie con il calendario cerimoniale. Djai Mahshi, il pollo della festa di Hannukkah (cfr box), ricorda per esempio la restaurazione del tempio di Gerusalemme dopo la rivolta dei Maccabei. In cucina, i cibi fritti e dolci rievocano il miracolo dell’olio che bastò a tenere acceso il candelabro del tempio per sette giorni. La cucina ebraica è tutta sotto il segno del rito e del tabù. Come quell’insieme di divieti, presentati nel Levitico e nel Deuteronomio, che vanno sotto il nome di kasherut e che selezionano gli animali commestibili, ma stabiliscono anche quali parti siano vietate e le regole della macellazione rituale. E ancora: come debba essere acceso il fuoco, come evitare di utilizzare le stoviglie in maniera promiscua, come si debbano pulire le verdure per mondarle dagli elementi di impurità, come debbano essere preparati gli alimenti, quali gesti rituali accompagnino la consumazione del cibo. Rituali ai quali non sono sottratti neppure gli animali da cortile che vanno uccisi secondo shekhità, ossia con un taglio rapido alla gola con un coltello affilatissimo privo di qualsiasi imperfezione sulla lama. Un vero sacrificio, giustificato dalla necessità della sopravvivenza, che non esclude un tributo di pietà per l’animale.
I tabù alimentari, presenti in tutte le culture del mondo, magari mascherati da gusti e disgusti, sono una vera sfida alla comprensione. Difficile trovarne una logica. Perché qui non si tengono in alcun conto le proprietà nutritive, mentre ci si preoccupa piuttosto (almeno stando alla lettura di Mary Douglas) di stabilire tassonomie, similarità e dissonanze. La cucina ebraica distingue perciò gli animali di terra, acqua e aria. E, individuando i criteri della appropriatezza, esclude dalla tavola tutto quanto è anomalo. Come i crostacei e i molluschi che non dispongono di pinne e squame o altri animali che, pur permessi, hanno però difetti fisici, che li rendono «abominevoli» e, dunque, non commestibili. Logica classificatoria o consequenzialità riconosciuta tra sacrificio e nutrimento, o ancora analogia tra naturale e spirituale: per un popolo che ha fatto dello stare alla «presenza di Dio» la sua maggior aspirazione e il suo dramma, anche la cucina esprime l’ossessione di mantenere il riferimento costante alla legge del Signore, alla Torah.




La ricetta
DJAI MAHSHI, IL POLLO ALL’EBRAICA
Mescolare in olio d’oliva un succo di limone, tre spicchi d’aglio, sale e pepe. Ungere un pollo, metterlo in forno per tre quarti d’ora, prima con il petto in giù e poi in su.
Nel frattempo preparare la farcitura soffriggendo 400 gr. di vitello macinato in olio di oliva, aggiungendo 150 gr. di riso a grana lunga e del brodo. Soffriggere a parte circa 75 gr. di mandorle spellate, pistacchi e pinoli, un cucchiaino di cannella in polvere, un mazzetto di aromi.
Quando tutto è pronto, mescolare, riempire il pollo e terminare la cottura.


© FCSF – Popoli, 1 dicembre 2010