Un cerchio di ferro mi stringe lo stomaco. Volevo scrivere quest’articolo all’inizio del mio pellegrinaggio in Algeria sulle orme di Charles de Foucauld. Non mi hanno dato il visto perché prete. Non discuto il diritto d’un Paese di scegliere i suoi ospiti e di combattere il proselitismo. Sarà per il 2010, a Dio piacendo! Tuttavia, sento la fragilità della mia residenza in terra musulmana e sono costretto a un nuovo atto di fede nel significato d’una «missione» esposta, trasparente e senza pretese. Probabilmente non c’entra niente con il mio visto, però, bene o male, sono un rappresentante della Chiesa occidentale, nel momento in cui il mondo arabo musulmano si sente aggredito a Gaza. Stamattina eravamo una decina in chiesa per le lodi. Ho cercato conforto e luce nei fratelli e nelle sorelle, i monaci e gli ospiti. D. è venuto dalla Francia senza soldi in autostop (forse incosciente del suo salvacondotto europeo). Il suo desiderio è rompere con il potere che produce la violenza. San Francesco faceva lo stesso. In questi giorni è come se mostri di violenza si azzannassero nella mia mente. Non è solo Gaza; è il Sudan, la Somalia, il Ciad, l’Iraq, l’Afghanistan, per rimanere nel mondo musulmano. Il bisogno di «farla finita», in arabo il bisogno di «salvezza», ci spinge, dall’inconscio, a giustificare, a prevedere soluzioni radicali e sproporzionate, al fine di eliminare il nemico. Paradossalmente, lo stesso incubo, di fronte a un nemico troppo forte o troppo feroce, può spingere all’autodistruzione, magari sotto forma d’un attacco suicida. Ci sono due tipi di guerre: il primo è quando si combatte nella prospettiva d’una pace possibile, d’un riequilibrio probabile, d’un ristabilimento della giustizia ragionevole. È un tipo di guerra capace di proporzionalità, che sa fare i conti con la necessità di non spingere il nemico all’esasperazione di Sansone a Gaza! L’altro modo di far la guerra è quello genocida, tragicamente consigliato dalle Sacre Scritture. Riguarda un nemico che è percepito come un pericolo definitivo per la sopravvivenza fisica e simbolica. È il caso di Gaza, dove vige una mostruosa logica speculare. Da sessant’anni i palestinesi perdono sistematicamente «terreno». Non hanno motivi per credere alla volontà di pace della parte israeliana (la signora Livni, presa da febbre elettorale, ha previsto persino l’ipotesi di cacciare i palestinesi cittadini israeliani). I palestinesi, persa la terra, si rivolgono all’identità collettiva araba e musulmana (Hamas è addirittura «post-araba» e in linea con l’alleanza islamica rivoluzionaria iraniana). Il combattimento diventa escatologico. Le tregue riguardano la tattica e non l’obiettivo finale. Delusi dalla logica brutale dell’angoscia israeliana, resta ai palestinesi la convinzione finale, teologica, che l’Islam debba rivendicare la Terra Santa poiché depositario d’una consegna divina. La fede islamica prevede che cambiamenti globali, e lotte intestine, renderanno possibile ciò che oggi appare improbabile: espellere i sionisti e costringere gli ebrei, anche quelli che rimarrebbero in Palestina, a riporre la loro speranza in un Messia a venire. L’incredibile sproporzione dei gesti di guerra israeliani a Gaza è collegata con l’angoscia del sopraggiungere d’un altro genocidio ed è poi utilizzata nei programmi elettorali. Il cerchio allo stomaco che mi deprime e il sentimento di scandalo nascono dall’osservare che la collettività internazionale e la coscienza globale stagnano nella logica di guerra, fino all’inconfessabile istinto genocida! I principi di non ingerenza e di autodeterminazione, che dovrebbero favorire l’evoluzione endogena dei popoli e l’approdo volontario ai valori, diventano foglie di fico per coprire le vergogne delle clientele inconfessabili, per esser poi rinnegati quando prevale la logica imperiale (Afghanistan e Iraq insegnano). Sarà bene come cristiani non farci troppe illusioni, in particolare riguardo all’oggettività delle nostre reazioni. È difficile sapere fin dove il mostro è dentro di noi o fuori, introiettato o proiettato. Sarà bene che un buon numero di discepoli - lo dicevo stamattina a colazione a un giovane slavo - siano pronti a diventare di nuovo pellegrini, a perder tutto, anche i monasteri benedettini fari di civiltà e i vari Mar Musa nidi di riconciliazione. La guerra ha sempre a che fare con la terra, col controllo del territorio. Rinunciare alla guerra è rinunciare alla terra. Gesù ci ha avvisati: il mio Regno non è di questo mondo. Ha profetizzato: i miti erediteranno la terra. Evitiamo però i gargarismi evangelici. Vediamo che cosa siamo disposti a rischiare come persone, come comunità e come «civiltà». Proviamo a immaginare un modo di sporcarci le mani, a Gaza!
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