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Sapori&Saperi
Anna Casella
Antropologa
Se a parlare di dialogo interreligioso sono gli immigrati
L’8 giugno è una data che non dice nulla agli italiani. Ma è una delle feste più importanti dei murid. In questa giornata si celebra la figura del mistico Cheik Amadou Bamba (1853-1927) che fondò la confraternita sufi della mouridia riunendo la popolazione wolof e rinnovando per loro l’ideale religioso dell’Islam. I colonialisti francesi non amavano quel profeta disarmato in veste bianca, il quale definiva se stesso al xaddim, ovvero il servitore, e invitava la gente alla preghiera e al lavoro. Quindi lo esiliarono per ben due volte, timorosi che la sua predicazione significasse la rivolta. Si dovettero rassegnare però a lasciarlo libero in Senegal dove, dal 1926 i suoi discepoli cominciarono la costruzione della grande moschea di Touba. Considerati da molti «I calvinisti dell’Africa» (cfr Popoli, n. 1/2007)  per la loro dedizione al lavoro e la convinzione che il denaro debba essere utilizzato soprattutto per le opere di bene, i Muridi (significa postulanti, aspiranti a Dio) senegalesi, prevalentemente della etnia wolof, si sono sparsi nel mondo e hanno costruito una rete internazionale di comunità migranti. E non si limitano a essere, in prevalenza, buoni lavoratori, timorati di Dio, disposti all’ospitalità e all’elemosina, come recita la loro dottrina, ma si pensano anche missionari dell’Islam non violento e umanistico predicato dal loro marabutto, Serigne Touba.

Dunque, la giornata nella quale si ricorda il ritorno dall’esilio del profeta, viene celebrata in tutte le città che ospitano una comunità senegalese: Atlanta, Los Angeles, New York, Roma, Brescia. Da 11 anni, con l’aiuto del sindaco di un paese del bresciano (Pontevico, nel quale i senegalesi dispongono di un luogo di culto) si celebrano, infatti, anche a Brescia le giornate di Cheik Amadou Bamba. Capita dunque che wolof dai coloratissimi costumi possano utilizzare la Camera di Commercio e, soprattutto, possano chiamare gli italiani a confrontarsi non sui problemi dell’immigrazione e i suoi pericoli, ma sui temi della religione e del dialogo interreligioso. Capita che le parole del vescovo cattolico vengano riproposte in wolof e che quelle del marabutto discendente da Serigne Touba possano essere tradotte in italiano da un convertito alla muridia.

Certo, tutto potrebbe essere visto come una celebrazione un po’ esotica, una parata dalla quale non è estranea anche una certa tendenza strumentale: in fondo non è male, specie in una città che negli ultimi anni non appare particolarmente disponibile nei confronti degli stranieri, presentarsi con l’immagine rassicurante dell’immigrato religioso e mite. Però, come non cogliere la straordinaria provocazione di questo invito a confrontarsi su quanto di più profondo le culture hanno, cioè le loro radici spirituali? Forse anche l’utopia del senegalese wolof, convinto che non si possa restare indifferenti al messaggio del suo santo profeta, può permetterci di abbandonare le discussioni astratte sulla integrazione, i suoi dogmi e i suoi rischi e misurarci sulla concretezza dell’incontro. Che sconcerta, inquieta, interroga, ma apre nuove strade, impegnative ed entusiasmanti.
Anna Casella Paltrinieri

14 giugno 2011