Opera prima della documentarista danese Karen Stokkendal Poulsen, The Agreement racconta in maniera efficace e sintetica la trattativa diplomatica lunga e complessa, iniziata nel 2011, per raggiungere un accordo tra due Paesi nemici, Kosovo e Serbia. L’accordo in questione è un’iniziativa dell’Unione europea, in vista della pace e di una possibile futura appartenenza dei Paesi alla Ue. Il Kosovo, l’ultimo Stato nato in Europa, è in cerca di riconoscimento. La Serbia, da pochi mesi Paese candidato, ha aperto i negoziati di adesione. La creazione dello Stato jugoslavo, dopo la prima guerra mondiale, unì (non senza forzature) un Nord sloveno e croato, cattolico ed erede delle tradizioni austro-ungariche, e un Sud, ortodosso e in parte musulmano, erede dell’impero ottomano. Solo il pugno di ferro di Tito tenne vicine popolazioni divise, dopo le ferite della seconda guerra mondiale. Le guerre degli anni Novanta - ultima proprio quella tra serbi e kosovari - hanno messo fine all’unità della regione.
A fare da negoziatore, mediatore e stratega di equilibri pressoché impossibili, oggi è Robert Cooper, una carriera di responsabilità nella Ue, diplomatico di rango, volto da cinema e una collezione di cravatte portafortuna e assai kitsch. Osserva Cooper: «Credo che l’Unione europea sia un successo fantastico. Pone fine a migliaia di anni di conflitti!». I negoziatori restano chiusi nelle stanze della diplomazia per giorni. Una sola parola su un documento può diventare ragione di scontro o di dilazione di ventiquattr’ore dell’intero accordo. Una battuta infelice può generare invettive contro il Paese ostile, i confini non riconosciuti, le ferite ancora aperte, la memoria della guerra, il crepitare delle bombe del 1999 e l’odio ancora vivi.
The Agreement è stato presentato in anteprima italiana al Milano Film Festival 2014, nella sezione «Colpe di Stato», curata da Paola Piacenza. Alterna immagini «in diretta» dentro le stanze della diplomazia europea a Bruxelles, cartelli che riassumono la Storia, immagini di repertorio della guerra nei Balcani - vero fallimento del sogno europeo - e scene in cui i diplomatici parlano, intervistati nel proprio Paese e del proprio percorso personale (il serbo Borko Stefanovic è un ex rocker anti-Milosevic, la kosovara Edita Tahiri è sopravvissuta al conflitto rifugiandosi in un bunker e ha poi studiato ad Harvard).
I personaggi appaiono spesso speculari, identici nelle loro fragilità umane (il serbo dice all’operatore: «fammi sembrare più magro!»; la kosovara: «troviamo la tinta di capelli giusta!») e nel loro rancore. A tratti simpatici, a tratti insopportabili. L’«arbitro» Cooper è un magnifico funambolo con la battuta pronta come il personaggio di una commedia inglese. L’ingresso nella sala europea è segnato subito da un’ostilità surreale, infantile e (non solo) simbolica: il diplomatico serbo ruba il posto alla collega kosovara. Lo stallo pare insuperabile. L’andamento e la musica sono quelle di un film thriller e, nonostante il tema «politico», la tensione resta alta fino all’ultima inquadratura.
Per la prima volta una macchina da presa entra nelle stanze chiuse del potere, dove si stipulano gli accordi internazionali, e mostra gli uomini e le donne che stanno dietro le quinte della diplomazia. L’accordo viene raggiunto, e proprio da quest’anno la Serbia è candidata a entrare nella Ue. L’impressione a fine film, però, è quella di avere assistito all’acrobazia sul filo di un buon equilibrista. Oggi è andata bene, ma sotto al filo resta il vuoto.
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