Musica, confini spezzati o ridisegnati, poesia, disagio e affetti quotidiani, con particolare attenzione alle persone e ai popoli della Mitteleuropa e alla loro storia ricca e spesso tragica allo stesso tempo. Il Trieste Film Festival (www.triestefilmfestival.it) continua a crescere in qualità e quantità. Alla 25ª edizione (17-22 gennaio) ha mostrato un centinaio di film interessanti, non conciliati e spiazzanti, dando prova di vitalità, unicità e successo in anni di crisi anche per i festival cinematografici.
Tra i titoli più potenti della rassegna segnaliamo il film d’apertura Un episodio di un raccoglitore di ferro, dell’autore bosniaco Danis Tanovic, storia vera e struggente di una famiglia rom nella Bosnia-Erzegovina contemporanea. Gli attori sono non attori che interpretano se stessi in una vicenda accaduta davvero nel 2011. Nazif è un rom che si guadagna da vivere vendendo materiali ferrosi e demolendo auto. Un giorno scopre che sua moglie ha appena perso il terzo figlio. La donna è in pericolo di vita, ha bisogno di un intervento chirurgico urgente, ma non ha i 500 euro necessari per le spese dell’ospedale. Tanovic ricostruisce una realtà tragica e sofferta con pudore e al contempo con partecipazione, evitando qualsiasi ricatto emotivo. Inquadra, senza vie di fuga, la povertà e la discriminazione.
Tra le pellicole italiane più rilevanti viste al festival, nella sezione «Italian Screenings», spicca il documentario Indebito di Andrea Segre e Vinicio Capossela (presto visibile in Dvd), dedicato al rebetiko, la musica ribelle e anarchica greca, un’onda emotiva di dolore e bellezza nella Grecia della crisi contemporanea. E, infine, l’ottimo Il treno va a Mosca di Federico Ferrone e Michele Manzolini, che racconta attraverso rari materiali di repertorio e interviste la vera storia di alcuni utopisti militanti del Pci italiano, che nel 1957 fecero un viaggio dall’Emilia Romagna all’Urss e tornarono segnati da quella realtà di miseria e assenza di libertà. L’opera, presentata con successo anche al Festival di Torino, è stata realizzata in coproduzione con la Fondazione Culturale San Fedele di Milano (editore di Popoli), aggiudicandosi il Premio Arti visive San Fedele nel 2012.
Un titolo del Festival, però, segna in particolare il nostro ricordo: Mama Europa di Petra Seliškar, storia poetica, colorata e «ad altezza di bambino» della piccola Terra (nella foto), una bimba di sei anni, padre di origini macedoni-cubane e madre slovena. Terra è nata nei Balcani e cresciuta in giro per il mondo. «È per questo che sono così intelligente! Perché ho viaggiato molto…» osserva. Mama Europa è costruito attraverso scene di vita quotidiana e dialoghi con la madre («Il mare è un confine, Terra? E gli uccelli sanno che è un confine?»). Tesse immagini d’archivio e animazioni naïf, che ricalcano i disegni della bambina. Mescola aneddoti, memorie e realtà. Ricorda certi passi magnifici e indelebili del fumetto Gorazde sulla guerra in Bosnia realizzato dall’artista Joe Sacco: «Non facevo la minima distinzione tra bambini serbi, croati e musulmani. Stavamo sempre insieme, a pescare, nel bosco, sul campo di basket o allo stadio…». Mama Europa è un racconto di grazia e passione che invita tutta l’Europa - intesa come popolo e non come mera realtà economica o di Realpolitik - a una riflessione sulla sua storia e ad aprire gli occhi sulla labilità della parola «confine».
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