L’Africa è un continente agricolo. Dal settore primario arriva il 30% del Pil, il 40% delle esportazioni e l’80% dei posti di lavoro. «Il futuro dell’Africa è nell’agricoltura - spiega Federico Perotti, coordinatore dell’ufficio progetti dell’Ong torinese
Cisv -. Il continente può contare su grandi ricchezze minerarie, ma sono gestite dalle élite, spesso corrotte, che le sfruttano a vantaggio loro e delle multinazionali. Quindi solo una migliore organizzazione del settore agricolo potrà portare sviluppo».
Eppure il settore primario, come dimostrano la carestia che ha colpito questa estate il Ciad e le crisi alimentari che affliggono periodicamente il continente, non è ancora in grado di assicurare la sufficienza alimentare. «L’Africa è molto grande ed è difficile generalizzare - osserva Ada Civitani dell’
Acra, Ong milanese che si occupa di cooperazione in campo agricolo -. Ma se possiamo individuare un elemento comune a tutto il continente possiamo indicare lo scarto tra un’agricoltura su piccola scala a livello familiare e le politiche messe in campo degli Stati. Queste ultime, influenzate dai mercati e dalle multinazionali, tendono a favorire coltivazioni su vasta scala, meccanizzate e destinate solo all’esportazione. Pensiamo alle monocolture: cacao, cotone, caffè, arachidi».
L’agricoltura familiare è invece quella più diffusa. Secondo la
Fao, infatti, l’80% delle aziende agricole ha un’estensione inferiore ai due ettari con rese per ettaro molto basse. «In Ciad - spiega Franco Martellozzo, gesuita, da anni impegnato a promuovere lo sviluppo agricolo delle comunità locali - mancano le tecniche di base. La coltivazione dei campi è ancora fatta utilizzando semplici attrezzi come la vanga e la zappa. Se solo venisse utilizzato l’aratro trainato dai buoi la produzione potrebbe addirittura triplicare. I contadini poi non conoscono l’utilizzo dei concimi che potrebbero, se impiegati correttamente, rendere il terreno ancora più fertile». Alle carenze tecniche si aggiungono quelle infrastrutturali: mancano strade, ferrovie, ponti. E questo è grave se si tiene conto che il 40% degli africani vive in Paesi che non hanno uno sbocco al mare e i costi di trasporto possono raggiungere addirittura il 77% del valore delle esportazioni. Secondo le statistiche della Fao poi solo il 3% delle terre dell’Africa sub sahariana è irrigato. A fronte di queste carenze gli Stati africani nel 2003 a Maputo avevano firmato una dichiarazione nella quale si impegnavano a investire almeno il 10% del Pil nell’agricoltura. A sette anni di distanza, solo Etiopia, Burkina Faso, Mali, Ghana, Senegal, Niger, Nigeria e Malawi hanno aumentato gli stanziamenti. «I finanziamenti pubblici sono scarsi - continua Perotti -. Ma anche le banche concedono pochi prestiti ai contadini. L’agricoltura è un’attività dai risultati talmente aleatori che nessuno rischia di prestare i soldi a un contadino».
Di fronte a questi problemi in molti Paesi i contadini hanno iniziato a riunirsi in organizzazioni per la difesa dei loro interessi. «Queste organizzazioni – spiega Ada Civitani – stanno assumendo sempre più importanza, soprattutto in Africa occidentale. Noi come Ong europee stiamo lavorando affinché le politiche agricole africane e delle grandi organizzazioni internazionali, invece di favorire le multinazionali, coinvolgano sempre di più queste organizzazioni contadine. Solo attraverso loro crediamo si possa aiutare la crescita tecnica e produttiva dell’agricoltura familiare. E con essa si possa favorire quell’autoproduzione indispensabile per arrivare all’autosufficienza alimentare».
Anche la Chiesa può svolgere un ruolo nel rilancio dell’agricoltura familiare? «La Chiesa cattolica africana – osserva padre Martellozzo – non ha ancora preso atto dell’importanza dell’agricoltura per il continente. Credo che dovrebbe invece sviluppare una teologia della creazione che aiuti i credenti a coniugare la fede con le esigenze della vita reale: la tutela delle foreste, delle risorse agricole, dell’acqua, ecc. Sono convinto che se i nostri vescovi di concentrassero su questi aspetti potrebbero offrire un grande contributo allo sviluppo del continente».
Enrico Casale