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Birmania: elezioni per non cambiare nulla
28 ottobre 2010
Dopo vent’anni, il 7 novembre, i birmani sono chiamati alle urne. Secondo quanto previsto dalla Costituzione approvata nel 2008 dal regime militare al potere, i cittadini devono scegliere circa tre quarti dei membri del parlamento. Il resto rimane di nomina militare, cioè appannaggio del cosiddetto Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo, diretto dal generale Than Shwe (77 anni). In questi due decenni la giunta militare è stata al vertice del Myanmar, dopo avere ribaltato gli esiti delle elezioni del 1990, quando la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi aveva vinto guadagnando il 59% dei voti.

Circolano voci di una possibile liberazione della leader dell’Nld, premio Nobel per la pace nel 1991, che è ancora agli arresti domiciliari dopo sette anni (in tutto ne ha trascorsi 15 in detenzione) e non avrebbe alcuna possibilità di partecipare al voto. Aung San Suu Kyi ha condannato queste elezioni come una finta operazione che non rappresenterà la volontà del popolo.

Una ventina di partiti sono stati ammessi all’appuntamento elettorale, anche se subiscono forti limitazioni e la propaganda è di fatto vietata. Favorito è l’Usdp, nato da un’organizzazione legata alla giunta che dichiarava di avere 10 milioni di aderenti su 48 milioni di abitanti.
Aung San Suu Kyi considera ancora valida la sua vittoria democratica del 1990 e il suo partito boicotta il voto. Questa donna fragile che oggi ha 65 anni resta una figura venerata nel Paese da chi si oppone al regime.

«Con una buona dose di cinismo, i birmani dicono che il Myanmar è un Paese efficientissimo nell’organizzare le elezioni: prima viene stabilito l’esito del voto, poi la data per andare alle urne e infine si organizzano le operazioni di voto». Così illustra il clima a pochi giorni dalle elezioni una nostra fonte interna alla Birmania di cui non riveliamo il nome per ragioni di sicurezza. «La maggioranza è fortemente convinta che non cambierà nulla. È un mutamento d’abito, più che di politica: diversi responsabili militari hanno smesso la divisa per entrare in parlamento e continuare a gestire il potere».

Il Myanmar è uno dei Paesi a più basso reddito dell’Asia e molti birmani vivono senza beni di prima necessità: la fame è una realtà nelle aree più isolate. Il sistema scolastico è carente anche se, con l’arrivo di internet e della Tv satellitare, una nuova generazione si dà da fare per ottenere una formazione di maggiore qualità. La popolazione dipende perlopiù dai guadagni dall’agricoltura, ma poiché i prezzi dei prodotti sono variabili e controllati dal regime militare, spesso gli introiti risultano insufficienti alla sopravvivenza. L’élite militare, invece, si è arricchita enormemente. «La Cina è la potenza che tutela la giunta birmana, attuando una politica neocoloniale spietata - continua la nostra fonte -. Grazie al potere di veto in Consiglio di sicurezza all’Onu, ha la facoltà di condizionare ogni politica internazionale contraria alla giunta e con il suo sostegno mette le mani sulle risorse del Paese». Solo nel 2009 la Cina è riuscita a dislocare quasi 300mila persone nello Stato della minoranza kachin, nel nord del Paese, per realizzare progetti idroelettrici a proprio favore. Acquista gas naturale dalla giunta birmana che in questo modo si accaparra circa 3,5 miliardi di dollari Usa all’anno senza vere politiche di redistribuzione. I lavori di costruzione di un gasdotto di 2.900 km tra la costa del golfo del Bengala e la Cina nei prossimi cinque anni costringeranno altre 500mila persone a lasciare i propri villaggi.  

Basandosi sulla propaganda che parla di «paradiso socialista» in cui la povertà è stata sradicata, il governo è cauto rispetto alle attività apertamente rivolte allo sviluppo, come quelle che lavorano nelle zone colpite dal ciclone Nargis del 2008. Le Ong hanno limitazioni, anche se sono autorizzate quelle nazionali. L’attività di missionari stranieri è vietata: i gesuiti sono stati espulsi dal Paese nel 1965 e il Jesuit Refugee Service, che nel nord della Thailandia e a Bangkok aiuta i rifugiati delle minoranze etniche in fuga dal Myanmar, è bandito. Quasi tutte le popolazioni minoritarie (un terzo del totale) sono in conflitto con la giunta che favorisce l’egemonia della maggioranza birmana e buddhista. I rifugiati sono considerati ribelli, così come chi li assiste.

La cosiddetta «strada della democrazia», di cui le elezioni costituirebbero una tappa, sembra, al massimo, uno stretto sentiero, secondo la nostra fonte che non giudica del tutto negativamente le prossime elezioni, anche se sono una finzione. «Il regime ha bisogno di avere qualcosa che si chiami “parlamento”, non può continuare a governare nascondendosi dietro i fucili - spiega -. Sarà allora più facile per il popolo vedere in faccia chi prende le decisioni e in futuro avere elezioni più libere. Trovo efficace la sensibilizzazione che viene da personaggi famosi della musica o dello sport, come Cristiano Ronaldo e Fernando Torres. Sfondano la cortina di isolamento, comunicando nuove speranze ai giovani e un senso di appartenenza a una comunità più grande». Magra consolazione per chi vede in Aung San Sui Kyi il proprio eroe, ma rischia tre anni di prigione anche solo nominandone il nome.

© FCSF – Popoli