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Birmania, un seggio per Aung San Suu Kyi
28 marzo 2012
Le hanno cambiato nome - Myanmar -, la bandiera (due volte) e anche capitale (ora è Naypyidaw, cresciuta dal nulla a 300 km da Yangon). Basterebbero queste decisioni arbitrarie per illustrare la presa sulla Birmania da parte dei militari che dominano dal colpo di Stato del 1962. Ma mezzo secolo di controllo politico violento sulla vita di 48 milioni di birmani ha avuto molte più conseguenze tragiche. E un popolo pieno di ferite osserva prudente il mutamento di pelle del regime.
Dopo oltre un quindicennio di arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi - «la Signora» leader dell’opposizione democratica e quasi incarnazione di una Birmania diversa - percorre il sud del Paese nella campagna elettorale che salvo sorprese la porterà in parlamento. Il 1º aprile è prevista una tornata di elezioni suppletive per riempire una quarantina di seggi rimasti vacanti nella Camera bassa. Il regime si muove, l’attuale capo del governo, Thein Sein, generale che ha smesso la divisa, sembra guidare le fila dei riformisti contro le resistenze dei militari conservatori.
Dopo l’insediamento di un governo in apparenza formato da civili, l’elenco di novità dell’ultimo anno è stato sorprendente. Oltre alla riapertura del parlamento, il regime ha concesso un’amnistia per seimila detenuti, compresi circa 300 prigionieri politici, mentre altri duemila restano dietro le sbarre. Ha bloccato la costruzione di un enorme impianto idroelettrico cinese sull’Irrawaddy, il grande fiume spina dorsale della Birmania. A gennaio è poi arrivato un cessate il fuoco con il Knu, formazione combattente della minoranza karen che da sessant’anni lotta per l’indipendenza. È stata creata una Commissione per i diritti umani e si annuncia una legge per abolire la censura nei media mentre il controllo si è in parte allentato.
Secondo una fonte riservata di Popoli che segue attentamente le vicende birmane, è difficile a questo punto per il regime tornare indietro, anche se il processo non sarà certamente facile: clientelismo, corruzione e, ancora peggio, fratture etniche, di classe e religiose sono così profonde che rimarranno per anni. Questo solleva una serie di interrogativi sulla capacità del governo di guidare il cambiamento.

RIFORME INSTABILI
Ma a lasciare il segno più impressionante è il ritorno in gioco della leader politica più amata, colei che aveva portato al 59% dei consensi la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd) nelle elezioni libere del 1990, poi annullate dal regime. Dopo alcuni incontri ufficiali come quello con Hillary Clinton, impensabili fino a un anno e mezzo fa, Aung San Suu Kyi ha intrapreso la campagna elettorale sul delta dell’Irrawaddy.
«Non sappiamo ancora se la transizione è senza ritorno, senza colpi di coda - osserva Cecilia Brighi, da anni impegnata nella Cisl in difesa dei diritti umani e dei lavoratori birmani -. Registriamo che non ci sono ancora cambiamenti stabili sul piano giuridico. La liberazione di tanti prigionieri politici non è incondizionata, manca ancora una legislazione che cancelli le leggi draconiane precedenti: quelle stesse per cui chi oggi è libero non ha ancora la certezza di poter fare attività pubblica senza essere di nuovo arrestato».
Myo Aung Thant, uno dei leader del sindacato libero birmano, imprigionato nel 1997 e poi condannato all’ergastolo, è stato liberato dopo più di 14 anni di isolamento. Ha subito continue torture con elettrodi, ha perso i denti, è un uomo provato anche psichicamente, che vorrebbe solo raggiungere la famiglia rifugiata negli Usa.
Altri, coraggiosamente, dopo il rilascio hanno ripreso a impegnarsi per il ritorno alla democrazia e a una pacificazione nazionale. Già tre giorni dopo la loro liberazione, in gennaio, molti ex detenuti tra cui U Gambira, che nel 2007 aveva guidato la protesta dei monaci buddhisti, e Su Su Nway, la giovane arrestata per il suo coinvolgimento in quelle manifestazioni, hanno formato un movimento multireligioso per la pace nella Chiesa luterana di Yangon, raccogliendo anche hindu, musulmani e cristiani.
È promettente il fatto che il governo, nell’ultimo anno, si sia dato tra le priorità la lotta alla povertà, una parola che, fino al 2007, non poteva nemmeno essere pronunciata in presenza di un ministro. Tra i primi provvedimenti c’è stato un aumento delle pensioni dei dipendenti pubblici e l’annuncio di un aumento di spesa per l’istruzione e la sanità, rimasta a lungo straordinariamente bassa: lo 0,9% del Pil destinato finora alla salute equivale in media a un misero dollaro a testa all’anno, contro circa il 23% del Pil che i governi militari dedicavano alle forze armate.
Rimane ancora diffuso il ricorso al lavoro forzato e a quello minorile. Se la quota di bilancio nazionale destinata ai lavori pubblici aumenterà, sarà più probabile alleviare il peso del lavoro forzato, cui si fa ricorso per la costruzione di strade e ponti, soprattutto nelle zone delle minoranze etniche.
Il governo ha dovuto verificare, per la prima volta negli ultimi vent’anni, che la miseria dilaga e i bisogni richiedono una risposta. «La prima cosa che mi ha detto Aung San Suu Kyi - racconta Brighi dopo l’incontro che ha avuto in gennaio con la leader della Lnd - è stata: “Chiediamo la realizzazione dello Stato di diritto non solo sulla carta, nelle leggi, ma nella vita concreta, nei territori». Yangon può sembrare una città normale, con spazi di libertà, si trova perfino qualche internet café (con collegamenti altalenanti), ma lontano dai grandi alberghi della metropoli la gente vive in estrema povertà, in condizioni terribili. Non c’è un sistema di sicurezza sociale, la povertà è diffusa come il ricatto politico».
Ad esempio è stata emanata una nuova legge che consente di costituire sindacati, ma mancano i decreti attuativi e per i sindacalisti è impossibile registrarsi. Ostacoli di ogni tipo impediscono di riorganizzare sindacati liberi. U Maung Maung, il leader del sindacato libero (Ftub), attualmente in esilio, è ancora considerato un terrorista. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e tutte le organizzazioni per i diritti civili chiedono che queste accuse vengano ritirate. «Per cambiare pagina, bisogna permettere a chi è fuori dal Paese di rientrare senza rischiare la galera».
La situazione del lavoro continua a essere tenuta sotto controllo: in marzo l’Oil ha presentato l’ultimo rapporto e ha discusso di lavoro forzato e libertà sindacale. Le violazioni non sono finite, di fatto la Costituzione prevede che i militari non possano essere denunciati e godano di tutele.
Le cause che hanno portato alla svolta non sono del tutte decifrabili e toccano in parte i rapporti interni all’élite al potere. Si sono mossi in sincronia una spinta dal basso nella società e una dai vertici politici.
Personaggi, anche ex esiliati con esperienze internazionali, sono diventati consulenti ascoltati dal potere. Ma non si possono dimenticare i movimenti di massa come le proteste dei monaci e un rifiorire della società civile dopo il disastroso ciclone Nargis del 2008 (almeno 120mila morti nel delta dell’Irrawaddy). Questi movimenti, più interessati a migliorare le condizioni di vita della gente che a rovesciare il governo, hanno dimostrato che un’opposizione pacifica e costruttiva è possibile. Coerentemente Aung San Suu Kyi ha giocato il proprio ruolo, assumendo una linea più conciliante che in passato, disposta a parlare di compromesso.

LO SVILUPPO FALLITO
La Birmania è in una situazione finanziaria disastrosa. C’è la necessità di riaprire agli investimenti internazionali e ristabilire con urgenza rapporti con le istituzioni finanziarie. Le sanzioni occidentali in questi anni hanno colpito le proprietà dei militari e gli interessi economici dei loro circoli, ad esempio ex trafficanti di droga riciclati nel settore industriale o dell’edilizia. L’industria pesante è stata colpita, anche se non c’è mai stato un embargo totale delle armi, aggirato da Cina, Russia e altri Paesi asiatici. I militari hanno potuto fare investimenti che hanno messo in ginocchio il Paese, come l’avvio della costruzione di un impianto nucleare (in collaborazione con russi e nordcoreani), l’acquisto di elicotteri dalla Corea del Nord e, infine, la costruzione dal nulla di una nuova capitale.
Si sono così aggravati i problemi portando al depauperamento del Paese che invece potrebbe essere un’economia di punta in Asia, grazie alle riserve di gas e petrolio. Ma il gas prende la via della Cina e della Thailandia, mentre la popolazione soffre di carenze elettriche con blackout continui.
Per la Cina, la Birmania è strategica: oltre ad avere legami storici antichi di secoli, i due Paesi condividono duemila chilometri di confine. La Birmania offre alla Cina enormi riserve di gas e uno sbocco naturale sull’Oceano indiano, che consente di bypassare lo stretto di Malacca. Da vent’anni il gigante asiatico esercita la sua influenza economica e militare in Birmania. Quattro quinti dell’equipaggiamento della difesa è made in China.
Per questo è stato ancora più sorprendente lo scorso ottobre lo stop alla costruzione dell’immensa diga di Myitsone, progetto cinese da 3,6 miliardi di dollari, nella zona della minoranza Kachin, osteggiata dai ribelli locali e da un vasto fronte popolare. Secondo i piani, il 90% dell’elettricità prodotta, completata l’opera nel 2019, sarebbe stata destinata alla Cina. Il giorno prima dell’annuncio, il ministro degli Esteri birmano era in visita a Washington. Taciti accordi con gli Usa o un sussulto di orgoglio nazionale?
I governi occidentali tornano a guardare con impazienza alla Birmania, desiderosi di fare affari in una terra che potenzialmente è la più ricca del Sud-est asiatico. In competizione con la Cina si è messa anche l’India, l’altro gigante che confina con la Birmania e che, pur essendo una democrazia, dalla svolta neoliberista del 1992 ha deciso di chiudere entrambi gli occhi sulla serie infinita di violazioni dei diritti umani del regime, per non perdere la corsa degli investimenti energetici e dei trasporti (la Birmania è lo sbocco anche per l’isolato nord-est indiano). «I birmani si fidano poco della Cina e corteggiano l’India per differenziare gli investimenti - commenta Duncan MacLaren, esperto di Birmania dell’Università cattolica di Sydney -. La Cina tuttavia può essere anche un esempio per il regime di transizione graduale, senza rovesciamenti di leadership».
Nel 2010-2011 sono stati approvati 20 miliardi di dollari di investimenti, ma meno di uno è stato messo in cantiere e quasi solo nell’industria estrattiva ed energetica. Intanto, «le condizioni di lavoro nelle 13 zone industriali - spiega Brighi -, compresa quella gigantesca di Dawei, vicino al confine thailandese, sono disastrose. Centinaia di migliaia di lavoratori guadagnano 30 euro al mese per 10-12 ore al giorno».
Se le sanzioni occidentali non sono state abbastanza efficaci in passato, possono svolgere un ruolo importante oggi, stimolando l’avanzare delle riforme. I militari non ammetteranno mai di avere fallito nello sviluppo del Paese, ma lo spazio politico che può riconquistare la Signora segna un nuovo inizio.
Francesco Pistocchini
© FCSF – Popoli
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