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Brasile, una vetrina Mondiale
06/06/2014

Cominciano il 12 giugno i Mondiali di calcio: li ospita un Paese che ha il futebol nel sangue e che vive questo megaevento come un assist per presentare al pianeta il suo nuovo volto. Possibilmente senza rinnegare la propria identità, fatta di differenze, contrasti, meticciato. La riflessione di un antropologo autore di un libro di recente uscita.

 

È un momento esaltante per il Brasile. Difficile, controverso, ma certamente decisivo per le sorti dell’«indomito colosso», come recitano le parole dell’inno nazionale. Non c’entrano il calcio, l’economia e nemmeno la politica. O meglio c’entrano, nella misura in cui tutto, in una cultura, ha un senso, un significato. Ma sono altre - più generali, più nobili - le ragioni per cui il Brasile vive con il cuore in gola questo mese elettrizzante che inizia il 12 giugno, fatto di partite, turisti, giornalisti, proteste. Un mese in cui la storia - finalmente - passa davvero da queste parti.

UNA CHANCE MONDIALE
C’era già stata un’altra occasione per dimostrare come il Brasile fosse pronto, moderno, «degno» di partecipare al banchetto dei primi della classe. Era il 1950, ma il Brasile fallì l’appuntamento. Lo mancò non perché venne sconfitto nella finale «sportivamente» più tragica della storia del calcio, quell’«Hiroshima tropicale», come venne ribattezzata la derrota contro l’Uruguay, che seppe ispirare, e ancora ispira, poeti, narratori, giornalisti.

È piuttosto il fatto che, a essere imputati di quella sconfitta, furono due «negri», il portiere Barbosa e il terzino Bigode, a dover fare riflettere sulle dinamiche identitarie di «quel» Brasile, così come del Brasile di oggi.

Nonostante il perenne complesso di inferiorità dei brasiliani - ribattezzato, con un’immagine efficacissima, o complexo do vira-lata, complesso del bastardo (il vira-lata è quell’animale randagio che rovista nella spazzatura e con un tocco vira, «rovescia», le lattine di alimenti) -, nonostante questo, è il modello meticcio che il Brasile vuole mostrare ai razzisti - e agli uomini di buona volontà, certo - di tutto il mondo.

Questo Brasile che cambia con una velocità entusiasmante e inimmaginabile per noi europei è una Repubblica federale con un territorio di più di 8 milioni di chilometri quadrati (26 volte l’Italia, per intenderci) e una popolazione di quasi 200 milioni di individui; vanta immense risorse agricole e zootecniche, giacimenti di oro, ferro e petrolio e alcune delle mete turistiche più visitate del mondo. È il luogo ideale - dovunque il Mondiale porti, fisicamente o nei sogni di ognuno di noi - per «abbandonarsi» alle emozioni, perché offre sempre una scelta, un angolo di familiarità in tanto esotismo, un’eccitante immersione nella diversità, antidoto all’omologazione.

Le immagini televisive ci trasmettono la sensazione di una terra composita, diseguale e sempre diversa da se stessa. E questa «alterità», questa peculiarità, questa «essenza brasiliana», se talvolta può apparire socialmente dolorosa, è in realtà un germe prezioso e fecondo che si chiama meticciato. Eccola allora la carta vincente che i brasiliani devono giocarsi fino in fondo, che abbatterà l’indifferenza di noi occidentali, lo snobismo, il razzismo, e che farà dimenticare cose in fondo marginali e contingenti (la puntualità, l’organizzazione, l’efficienza).

La gente brasiliana - siamo consapevoli che le generalizzazioni sono sempre pericolose, eppure qui si accenna a un modello culturale abbastanza «condiviso» - sembrerebbe adorare uno speciale understatement, da ribaltare repentinamente in orgoglio meticcio. Questo ha portato a riscontrare, nei brasiliani, un altro complesso, in fondo parente di quello del vira-lata. Le vittorie, sportive e non, vengono ricondotte alla creatività, all’originalità, all’audacia e all’anticonformismo; le sconfitte all’irresponsabilità, all’indisciplina, alla mancanza di carattere. Tutte caratteristiche - quelle positive come quelle negative - che siamo soliti attribuire ai bambini. Ecco perché questa «sindrome» viene chiamata paradoxo do moleque, il «paradosso del bambino»; è come se il gigante sudamericano (l’indomito colosso dell’inno) soffrisse, ancora e sempre, di quella dolce condanna così ben tracciata in Macunaíma, l’eroe senza carattere, dal poeta modernista Mário de Andrade. Informale e... impunito, un po’ troppo superbo eppure capace di atti d’umiltà persino eccessivi: è così che appare il brasiliano.

Il Brasile-nazione, il Paese ufficiale, presenta quindi la propria tecnologia, la propria voglia di «fare» e di «essere», la propria crescita economica. Ma che portata storica possono avere queste eccellenze di fronte al sorriso disarmante e devastante di certi bambini mulatti, di certe donne e uomini euro-africani, scurinhos, morenos o dalla pelle dourada? Di fronte a certi messaggi fatti di sguardi, di movenze e di posture del corpo, che si possono osservare nei campetti spelacchiati dove si pratica il calcio più autentico, nelle spiagge della bossa nova, nelle piazze della capoeira, nei morros e nei suburbi del samba?

Attitudini, queste, che non sono allusive, come la cattiva fede degli europei ha fatto credere per troppo tempo, ma espressive, ricche di simbologie e riferimenti identitari, gioiose, comunicative e persino «religiose», culturalmente complesse e sincretiche. Ancora, il Brasile ha l’opportunità di mostrare il proprio jeitinho, ovvero quella capacità di aggirare gli ostacoli, di farsi volere bene anche quando si è in difetto, di ingannare, forse, per ottenere ciò che si vuole. Come fa il malandro cantato nei samba: uomo eternamente immaturo che vive di espedienti, che ruba ai ricchi, ma che possiede un cuore nobile e in fondo sa commuovere; come fa la donna, nobilitata dalla letteratura di Jorge Amado - Teresa Batista, Dona Flor, Gabriela - che sembra «leggera» ma che in realtà vive generosamente, e il suo eros, l’amore che regala, la bontà che dimostra sono funzionali alla salvezza degli uomini e degli ideali.

DODICI PERLE DI DIVERSITÁ
Ecco che allora, di fronte al popolo, la vera ricchezza del Brasile, anche l’interesse per le dodici città che ospiteranno la Copa - con la loro bellezza, la loro vitalità, il loro ritmo, il loro essere così lontane, diverse, eppure tutte autenticamente brasiliane - sembra passare in secondo piano. Eppure di meraviglie, sparse per questo avvincente Paese, ve ne sono davvero per tutti i gusti: estetici, gastronomici, paesaggistici, musicali, religiosi.

Salvador de Bahia è terra di macumbe, santi e orixás, di feticismi vecchi e nuovi, di magie, di malie di colori accecanti e di angoli decrepiti. Eppure è la città dalle «365 chiese cattoliche» - una per ogni giorno dell’anno -, il luogo dove le tradizioni nere, seppure da secoli sincretizzate con quelle europee, sono ancora vivissime, pulsanti, più Africa che l’Africa, più Africa che in Africa. Salvador respira, emana negritudine perché quelle radici, reinterpretate e ricolorate, come sempre avviene in Brasile, mostrano i segni, per paradosso, di una «vera» autenticità. Obbligatorio leggere Amado, ascoltare Caetano Veloso e Gilberto Gil, mangiare acarajé, e compiere un pellegrinaggio fino alla Casa Branca do Engenho Velho, il centro di culto dove nacque l’epopea delle religioni afro.

Rio presenta le ebbrezze e le inquietudini - fisiche, sentimentali e geografiche - del nostro immaginario: le spiagge di Copacabana e Ipanema, il Pão de Açucar, il Cristo Redentor del Corcovado, da dove si ammira il più bel panorama del mondo, visioni associate dalle tradizioni musicali del samba e della bossa nova, e poi tanti quartieri diversissimi per storie di popolamento, per charme, per mode.

San Paolo stupisce per post-modernità, efficienza, traffico, eppure - ecco che useremo, per la prima e unica volta, l’espressione più abusata dai commentatori - è davvero, se ce ne deve essere una, la «città dei contrasti». È la più grande e cosmopolita metropoli dell’America latina (19 milioni di residenti, 52 nazionalità rappresentate); la metropolitana trasporta 3,3 milioni di persone al giorno; in autobus si spostano 8 milioni di persone; offre 12.500 ristoranti, 1.500 bar, 79 shopping center. Non sono semplici dati, ma «opportunità». Vi sono il bairro italiano e quello giapponese, immensi parchi, le tradizioni nere, levantine ed europee che convivono. San Paolo appartiene al mondo, non soltanto al Brasile. Consiglio a tutti di ascoltare e di farsi tradurre le parole di Sampa di Caetano Veloso: si capirà tutto di questa metropoli, la più importante del Sudamerica, la città con più italiani nel mondo. Un luogo dove nonostante quel che si percepisce al primo impatto, regna la dolcezza, il lirismo, la poesia e, soprattutto, la saudade.

Ma come fare classifiche? Viviamo settimane frenetiche di collegamenti televisivi, reportage giornalistici, frettolose immagini o parole che si posano, distrattamente, sulla gradevolmente pigra Fortaleza, e sulla moderna Belo Horizonte, in una regione, il Minas Gerais, che visse l’epopea dell’oro, poi del latte e ora dell’automobile. Ancora, vedremo di sfuggita l’utopica, incredibile, lineare Brasilia, celebrazione del sogno sinuoso e senza curve di Oscar Niemeyer; conosceremo (poco) la coloniale Recife con vicino quel gioiello barocco di Olinda; ci affacceremo nell’organizzata e fredda Curitiba e nella caldissima Cuiabá, nel pieno del paradiso naturale del Pantanal; gusteremo - di seconda o terza mano - il fascino esotico della solitaria Manaus e della foresta che tutto inghiotte, condiziona, determina, persino i sogni che hanno portato i visionari a costruire e poi a frequentare quel teatro ricchissimo e ridondante. Faremo un tuffo nella «bionda», europea, anzi tedesca, Porto Alegre; nella pigra e divertente Natal, città contornata di spiagge, spiagge, e ancora dune di sabbia.

Il Mondiale brasiliano, inutile negarlo, è un’autentica «scarica di energia»: troppe le evocazioni meramente sportive - il Brasile calcistico e la sua storia, in primis -, troppi gli stimoli visivi, culturali e non, che gli spettatori e i turisti colgono.
L’occasione è imperdibile, per i brasiliani e per il mondo intero: far capire e capire cosa ha reso questo popolo, che pure è stato ed è sofferente, e tanto, la gente più felice della terra. Un’ipotesi, solo una, celebrata dalle parole del poeta Vinícius de Moraes: che la vita, davvero, non è nient’altro che a arte do encontro...

Bruno Barba
Antropologo, autore di No país do futebol.
Il calcio torna a casa: un viaggio antropologico (Effequ 2014) 

© FCSF – Popoli