Nel mondo ecumenico il 2012 sarà ricordato come un anno segnato dalla scomparsa di quattro patriarchi - «papa» Shenouda III della Chiesa copta, Abuna Paulos della Chiesa ortodossa etiopica, i patriarchi Maxim di Bulgaria e Ignazio IV di Antiochia - e dal ritiro di Rowan Williams, l’arcivescovo di Canterbury, primate della Comunione anglicana. Questo non significa che non vi siano stati eventi significativi a livello di dialogo tra le Chiese, anche se l’attenzione è caduta più sulla preparazione di eventi futuri: dalla prossima Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (che si svolgerà a Busan, in Corea del Sud, a novembre), alle celebrazioni per i 1.700 anni dell’Editto di Milano promulgato da Costantino, alla definizione dei programmi per il 500° anniversario della Riforma protestante, che verrà celebrato nel 2017, con una sensibilità e un coinvolgimento ecumenico francamente inimmaginabili fino a pochi decenni orsono. Né il focalizzarsi sulla scomparsa di questi patriarchi e sulle dimissioni dell’arcivescovo di Canterbury significa che si possa cogliere il polso della situazione ecumenica ignorando quanto avviene quotidianamente nel vissuto delle varie Chiese. Anzi, paradossalmente, una consapevolezza che si sta facendo strada con sempre maggior chiarezza è che il movimento ecumenico non può più ignorare l’enorme diffusione a livello mondiale del pentecostalismo e delle Chiese evangelicali: realtà ecclesiali con una struttura gerarchica minima o inesistente e per le quali solo recentemente le Chiese «storiche» hanno predisposto strutture e organismi di dialogo e di ascolto. Come ha giustamente osservato Aram I, catholicos (primate) della Chiesa apostolica armena, durante la consultazione su «l’ecumenismo conciliare» convocata a Beirut dal Consiglio ecumenico delle Chiese (5-11 febbraio 2012), nel cristianesimo contemporaneo assistiamo allo spostamento da un ecumenismo istituzionale a uno di base, da un ecumenismo multiconfessionale a uno confessionale, da un ecumenismo globale a uno regionale, locale. Perché allora focalizzare l’attenzione sulla scomparsa di alcuni capi di Chiese ortodosse e orientali e sull’avvicendamento alla cattedra di Canterbury? Innanzitutto perché almeno due dei patriarchi scomparsi sono state figure altamente significative nel movimento ecumenico. Il patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Ignazio IV Hazim, è stato per decenni uno dei principali artefici del dialogo ecumenico: tra i fondatori della «Gioventù ortodossa» in Libano e Siria nel 1942, resta memorabile un suo discorso all’Assemblea ecumenica di Uppsala nel 1968 sullo Spirito che fa nuove tutte le cose. Non a caso la Chiesa greco-ortodossa di Antiochia è stata una delle pochissime ad aver risposto con un memorandum teologico all’invito espresso da papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint (1995) a ripensare insieme nuove forme di esercizio del ministero primaziale del vescovo di Roma. Dal canto suo, il patriarca Paulos della Chiesa ortodossa etiopica era uno degli otto presidenti del Consiglio ecumenico delle Chiese eletti all’Assemblea generale di Porto Alegre nel 2006, dopo esser stato membro della Commissione teologica di Fede e Costituzione. Inoltre tre di questi patriarchi erano alla guida delle rispettive Chiese dagli anni Settanta e il loro ministero aveva quindi attraversato una stagione estremamente complessa, ricca di fermenti e di dialoghi ecumenici e di relazioni con contesti sociali in profonda mutazione.
TRA PRIMATO E SINODALITÀ La rilevanza ecumenica di questi cambiamenti al vertice di Chiese così diverse va però al di là delle singole persone: sono le diverse modalità di scelta dei loro successori a suscitare riflessioni di estremo interesse. A parte le implicazioni sociali e politiche di scelte ecclesiali così importanti prese o da prendersi in Paesi come Egitto e Siria nell’attuale contesto mediorientale, o come la Bulgaria, dove tale elezione avviene per la prima volta dopo la caduta del regime comunista, è la diversità delle procedure di elezione o nomina a offrire all’insieme delle Chiese cristiane l’opportunità per riflettere sul fondamentale equilibrio necessario tra «l’uno, i pochi, i molti». Cioè sulla dialettica tra sinodalità ed esercizio del primato, sulla differenza tra democrazie e conciliarità, sugli strumenti umani di cui lo Spirito si serve per far sentire il suo soffio vitale nella Chiesa. In particolare, vale la pena evidenziare la procedura seguita dalla Chiesa copta in Egitto: da tutte le diocesi sono stati presentati all’apposita commissione, presieduta dal locum tenens, 17 candidati, monaci e vescovi; questi nominativi sono stati esaminati e la rosa è stata ridotta a cinque persone (due vescovi e tre monaci). A questo punto l’intero corpo elettorale - composto da circa 2.500 persone: vescovi, monaci, preti e laici rappresentanti tutte le diocesi e le istituzioni copte in Egitto e nella diaspora - ha votato tre nominativi tra i quali il 18 novembre è stato poi eletto per sorteggio (come Mattia negli Atti degli apostoli) il nuovo patriarca. Tutte le fasi di discernimento sono state precedute e accompagnate da giorni di digiuno e di preghiera vissuti intensamente dall’intera Chiesa: atteggiamento e disposizioni, queste, che troppo spesso dimentichiamo quando ragioniamo di nomine e successioni. Certo, nessuno strumento può garantire a priori che una scelta umana sia conforme alla volontà di Dio, ma quando le nostre Chiese si mostrano capaci di fare spazio allo Spirito perché agisca e restano in ascolto della Parola di Dio, allora anche le strutture ecclesiali ritrovano la loro autentica qualità di strumenti a servizio della comunione tra di noi e con Dio.
Guido Dotti
Monaco della Comunità di Bose
|