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"Gli Usa più vicini alla Corte penale internazionale"
16 novembre 2011
«Gli Stati Uniti per il momento non hanno ancora aderito alla Corte penale internazionale. Ma il clima è cambiato e, rispetto al passato, non notiamo più quell’ostilità che c’era un tempo verso la Cpi». Si legge ottimismo nella parole di Silvana Arbia, 59 anni, magistrato italiano, cancelliere capo della Corte penale internazionale de L’Aja. A lei, in questi giorni in visita in Italia, abbiamo posto alcune domande sulla sua esperienza e sullo stato della giustizia internazionale

Dottoressa Arbia quando è entrata nella magistratura italiana e quando ha deciso di dedicarsi alla magistratura internazionale?
Sono diventata magistrato il 30 giugno 1979 e ho lavorato per la magistratura italiana fino al 23 ottobre 1999. L’ultimo incarico in Italia è stato come giudice alla prima sezione penale della Corte di Appello di Milano. Nel 1999 ho partecipato al concorso per entrare nel Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Ho superato la selezione e sono diventata la responsabile dell’ufficio dei sostituti procuratori. Una carica simile a quella di Procuratore della Repubblica o del Procuratore generale in Italia.

Quali motivazioni l’hanno spinta a dedicarsi alla magistratura internazionale?
Leggendo le notizie che provenivano dal Ruanda si percepiva la gravità di quanto era avvenuto in quel Paese. Sebbene alla fine degli anni Novanta non si parlasse ancora di genocidio, le immagini che arrivavano erano drammatiche. Perciò mi sono interrogata, chiedendomi cosa potevo fare per quel Paese. Ho deciso allora di mettere a disposizione la mia esperienza di magistrato che aveva sempre coltivato un forte interesse per il diritto internazionale.

Qual è il bilancio della sua esperienza in Ruanda?
Sono stata quasi nove anni ad Arusha, in Tanzania, dove aveva sede il Tribunale internazionale. Un periodo abbastanza lungo per farsi un’idea precisa di quanto è avvenuto nel piccolo Paese dell’Africa centrale. Anche perché ho approfondito la questione ruandese attraverso la lettura, oltre che degli atti processuali, anche di libri, resoconti, testimonianze. Alla fine ho capito che questo genocidio poteva essere evitato o, comunque, potevano essere limitate le conseguenze. Tutti abbiamo visto che cosa stava succedendo, ma non è stato fatto il necessario per limitare la tragedia.

Chi è responsabile di tutto ciò?
Tutti dobbiamo prenderci il nostro pezzo di responsabilità. Non possiamo sempre pensare che la responsabilità sia soltanto delle grandi organizzazioni internazionali o dei grandi Paesi. Si deve capire che, nel suo piccolo, ogni uomo deve interessarsi a ciò che gli sta attorno. Chiunque può avere un ruolo da giocare. L’importante è capire che un contributo dare e non sottrarsi alle proprie responsabilità. Ecco in Ruanda, ciò non è avvenuto.
L’altra cosa che ho capito in Tanzania è che la giustizia sia a livello nazionale sia a livello internazionale non può mai fare a meno della verità. Andare sul luogo e conoscere in presa diretta ciò che è accaduto è importantissimo. Così come è importante comunicare agli altri quanto si è appreso nell’esperienza personale. È fondamentale cercare di capire quali meccanismi portano persone assolutamente normali a trasformarsi in feroci assassini. Se si conoscono i sintomi di questa trasformazione, è possibile evitarla. Questi genocidi non sono eventi casuali e unici, ma purtroppo sono qualcosa che si può ripetere.
Il diritto internazionale inoltre ci offre una possibilità in più per intervenire in casi gravissimi. Oggi proprio il diritto ci dice che quanto è successo in Ruanda è un crimine internazionale, non una calamità naturale. Quindi se c’è un crimine, c’è sempre un responsabile da individuare e da processare,  seppure con regole e garanzie chiare e uguali per tutti.

Qual è la sua carica attuale alla Corte penale internazionale (Cpi) de L’Aja?
Alla Cpi rivesto una carica simile a quella del cancelliere in Italia. Anche se i compiti sono un po’ diversi. Qui mi occupo di protezione dei testimoni, delle vittime, della difesa. Le mie motivazioni sono sempre le stesse: capire a fondo cosa c’è dietro un crimine internazionale e offrire giustizia alle vittime. Non si arriva sempre al 100% della verità. Ma già ottenere piccoli brandelli di verità è importante. Ed è importante anche che quanto si ottiene venga fatto conoscere. La conoscenza deve diventare parte della memoria, perché solo in questo modo si può pensare di evitare che le tragedie si ripetano.

Quali reati può perseguire la Cpi?
La Cpi è una corte permanente e indipendente che è legata all’Onu, ma non è un organo dell’Onu. È nata da un Trattato internazionale firmato a Roma nel 1998 che può essere modificato e ampliato prevedendo nuovi crimini. Attualmente la Cpi può perseguire i crimini di guerra, quelli contro l’umanità e il genocidio. L’aggressione di uno Stato su un altro era in un primo momento esclusa, ma nel 2010 a Kampala (Uganda) è stato previsto che la Cpi possa perseguire questo reato, anche se solo a partire dal 2017. In ogni caso non si punirà uno Stato, ma la persona, il politico che ha preso la decisione dell’aggressione. Perché, anche a livello internazionale, la responsabilità penale è personale.

Quali poteri avete per portare avanti le vostre inchieste e per eseguire le vostre sentenze?
Questo è l’aspetto più problematico e delicato. La Cpi non ha una propria autorità esecutiva (per esempio non ha una polizia) che permetta di far eseguire gli ordini di arresto, di sequestro, ecc. Questa mancanza rende indispensabile la collaborazione dei singoli Stati. Per i 151 Stati che hanno ratificato il Trattato di Roma, questa collaborazione è obbligatoria. Ma anche se uno Stato non è parte della Cpi può accettare la sua giurisdizione. Anche in questo caso il Paese è obbligato a collaborare con la Cpi. C’è poi un terzo caso. È quello in cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ritenendo possibile che siano stati perpetrati reati internazionali in uno Stato non membro, chiede alla Corte di intervenire per i crimini di sua competenza. È quanto avvenuto per le inchieste che riguardano il Sudan e la Libia. Anche in questo caso gli Stati coinvolti hanno l’obbligo di collaborare con il Consiglio di sicurezza e con la Cpi.

A queste complessità si aggiunge il fatto che Stati Uniti, Cina e Russia non hanno ratificato il trattato...
Sì, questi grandi Paesi ne sono ancora fuori. Però c’è da dire che tutti e tre i Paesi fanno parte (e con diritto di veto) del Consiglio di Sicurezza e, nel caso della Libia, nessuno di loro si è opposto a dare il mandato alla Cpi. Quindi posiamo dire che, pur non avendo firmato il Trattato, hanno «un piede nel sistema». Ad aver cambiato atteggiamento verso la Corte sono stati soprattutto gli Stati Uniti, anche se questo cambiamento non ha ancora portato alla firma del Trattato. Potrebbe essere una questione di tempi.

Da quali fonti arrivano i finanziamenti per la Corte?
I fondi vengono stanziati innanzitutto dagli Stati membri. Nel caso della Libia però il Consiglio di sicurezza, oltre ai finanziamenti degli Stati membri, ha previsto che possano esserci contributi volontari. Questa è una novità, anche se ci interessa capire meglio cosa si intenda per «contributi volontari» e come questi contributi possano conciliarsi con la necessità di mantenere l’integrità e l’indipendenza della Corte. Quella dei finanziamenti comunque è questione delicata. Gli Stati parte offrono un contributo calcolato in proporzione a quanto versano per le Nazioni Unite. Quest’anno, alcuni Stati, stretti nella morsa della crisi, hanno chiesto di mantenere i finanziamenti ai livelli dello scorso anno. Però nel frattempo gli impegni sono aumentati e quindi servono anche maggiori finanziamenti.

Quali procedimenti sono aperti davanti alla Cpi?
Oggi la Cpi è impegnata su sette casi: Uganda, Congo e Centrafrica (tre Stati membri che hanno chiesto l’intervento della Cpi), Sudan e Libia (nella quale siamo intervenuti per effetto di una risoluzione del Consiglio di sicurezza), la Costa d’Avorio (che non ha siglato il Trattato, ma ha accettato la giurisdizione della Corte), la Palestina. Quest’ultimo è un caso complesso: la Palestina è uno Stato o meno? Nel Trattato è previsto che solo gli Stati possano aderire alla Cpi.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli