La rivolta in Tunisia si estenderà ad altri Paesi del Maghreb? E se si accendessero nuove rivolte quale sarebbe il loro esito? Una svolta democratica degli Stati arabi o una deriva fondamentalista? Abbiamo chiesto di fare il punto sulla situazione ad Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
Negli ultimi vent’anni, la Tunisia che cosa ha rappresentato dal punto di vista politico ed economico per il Maghreb?Negli ultimi vent’anni, la Tunisia è stato uno dei Paesi politicamente più stabili dell’area del Mediterraneo. Questa stabilità ha permesso al governo di Tunisi di mettere in campo una serie di riforme strutturali che hanno migliorato notevolmente la posizione del Paese dal punto di vista economico. Un dato significativo: nel 2009 la Tunisia era al 32° posto nella classifica mondiale della competitività del Global report. In questo senso era meglio di tutti i vicini nordafricani e, addirittura, dell’Italia. Gli analisti economici prevedevano per il 2011 una crescita del 3% del Pil e dal 2012 in poi intorno al 5,5%. Un obiettivo un po’ ambizioso, ma non impossibile. La rivolta in atto ha ridimensionato queste stime e questi obiettivi.
La Tunisia quali rapporti ha avuto e ha con l’Europa e, in particolare, con l’Italia?La Tunisia rappresentava per l’Italia una nuova frontiera dal punto di vista economico. Molte industrie tessili venete e lombarde avevano portato nel Paese maghrebino le proprie fabbriche perché lì potevano utilizzare una manodopera con una buona formazione, ma a costi ridotti rispetto all’Italia. Molti studiosi e giornalisti sostengono che Ben Ali nel 1987 sia stato portato al potere da un complotto ordito dai servizi segreti italiani e francesi. Non so se questo sia vero. Francamente, mi sembra eccessivo. Si può però dire che il nuovo corso tunisino fu immediatamente sostenuto sia dalla Francia sia dall’Italia che nel nuovo presidente vedevano un fedele alleato nell’area maghrebina. Per i Paesi del Sud dell’Europa (Francia, Italia, Spagna, ecc.) dagli anni Ottanta a oggi è sempre stato vitale che sulla sponda meridionale del Mediterraneo ci fossero Paesi con governi che garantissero, da un lato, il contenimento dei flussi migratori africani e, dall’altro, fossero in grado di tenere sotto controllo il fondamentalismo islamico.
In Tunisia c’è il rischio che la rivolta venga strumentalizzata dal fondamentalismo islamico?Negli anni scorsi non ci sono state grandi azioni da parte dei fondamentalisti se non qualche attentato sporadico. Non esistono poi grandi partiti di ispirazione islamica. La crisi in atto potrebbe però cambiare e stravolgere l’intero quadro politico. Queste sommosse, infatti, non hanno una chiara direzione politica né hanno una leadership. I moti popolari potrebbero quindi condurre a una situazione di anarchia che, a sua volta, potrebbe aprire le porte a una manovra orchestrata da ex collaboratori di Ben Ali, militari e polizia che ripristinerebbe lo status quo (con la sostituzione di Ben Ali con un altro leader) oppure favorire le formazioni islamiche più intransigenti.
La rivolta si può estendere ad altri Paesi arabi? C’è il rischio «contagio»?Il mondo arabo non è un monolite. Al suo interno esistono realtà molto diverse. Credo, per esempio, che Libia, Paesi del Golfo e, in misura minore, Algeria dovrebbero subire meno i contraccolpi della crisi tunisina. Questi Stati basano infatti le loro economie sulle entrate derivanti dagli idrocarburi, entrate che, in questo periodo, sono elevate perché i prezzi di petrolio e gas sono alti. Con questi fondi i governi possono quindi accontentare la cittadinanza con una tassazione bassa, prezzi dei beni di prima necessità altrettanto bassi, programmi di Welfare, sovvenzioni, assunzioni clientelari negli apparati statali. Non è un caso che alcuni Paesi di questa regione si siano affrettati a tagliare le tasse e a ridurre i prezzi dei generi alimentari. Uno di questi è la Libia, che ha tagliato i prezzi dei beni di prima necessità e non ha aumentato (come era previsto) l’imposizione diretta dal 5 al 20%.
La Tunisia non disponeva di queste entrate da ridistribuire tra la popolazione. Si è quindi arrivati a un punto critico in cui la popolazione non ha più tollerato di vivere sotto un regime e, contemporaneamente, di soffrire la fame. Nella sua stessa situazione si trova l’Egitto. Nonostante in questi anni abbiano avviato una serie di riforme che hanno liberalizzato i mercati e hanno permesso la creazione di una piccola classe media, la crescita demografica e la disoccupazione giovanile mettono in forse la crescita economica del Paese.
La rivolta è dettata solo da ragioni economiche?Ovviamente no. In molti Paesi del Maghreb c’è anche un problema di successione al vertice. In Egitto, per esempio, Mubarak ha 80 anni, non si sa se si ricandiderà alle elezioni autunnali o se favorirà la candidatura di Gamal, il figlio. Questa situazione, soprattutto se non verrà definito un successore, potrebbe portare instabilità. C’è chi dice che questa rivolta tunisina possa dar vita a una svolta di tipo democratico dei Paesi arabi che potrebbero mettere in campo, come fecero negli anni Ottanta, una serie di provvedimenti riformatori. Questa è una speranza. Vedo questa svolta più difficile. Penso che i regimi arabi siano più portati a chiudersi in se stessi e, magari, a mettere in atto misure palliative che potrebbero rimandare la soluzione dei reali problemi sociali.
C’è il rischio che il fondamentalismo islamico si impadronisca del Maghreb?Anche in questo caso bisogna fare dei distinguo. In Algeria, per esempio, c’è stato un movimento integralista molto forte che, in parte, è stato ridimensionato dalla guerra civile degli anni Novanta, ma che in alcune sue espressioni (le affiliazioni ad al-Qaeda) è ancora ben organizzato. Anche in Libia, i veri antagonisti di Gheddafi non sono gli oppositori esuli all’estero (che non sono appoggiati da nessun Paese straniero), ma i fondamentalisti e l’islamizzazione della società libica. In Egitto, la vera opposizione a Mubarak sarebbero i Fratelli musulmani che però, da anni, sono tenuti fuori dalla scena politica nazionale anche se ultimamente hanno tenuto posizioni politiche, tutto sommato, moderate.
Enrico Casale