Wen-shan Yang è ricercatore dell’Istituto di Sociologia dell’Academia Sinica (l’Accademia nazionale di Taiwan). Esperto di demografia sociale e storica, ha pubblicato Asian Cross-border Marriage Migration: Demographic Patterns and Social Issues (Amsterdam University Press, 2010).
Quali sono le principali novità nei flussi migratori degli ultimi anni? C’è una tendenza crescente ad andare via dalle città costiere dopo la crisi iniziata nel 2008. Il governo inoltre incoraggia una strategia di sviluppo verso Ovest fornendo incentivi perché vengano aperti stabilimenti nelle zone interne. Dopo le feste del Capodanno 2010 si è verificata una carenza di lavoratori migranti in molte industrie della zona costiera, specialmente nel Guangdong. È il segno che molti migranti non sono tornati sul posto di lavoro dopo le ferie, sia per i tagli all’occupazione, ma anche per l’aumento di nuove opportunità di lavoro più vicine ai luoghi di origine. Oggi il Sichuan o l’Hubei offrono molti nuovi impieghi e i contadini restano più vicini ai villaggi, così possono seguire meglio la vita dei figli e dei genitori anziani.
Oltre alla ricerca di un lavoro migliore, ci sono altre spinte alla migrazione? Il trend più importante, anche nel futuro prossimo, riguarda le migrazioni a scopo di matrimonio. Per lo sbilanciamento tra maschi e femmine, in Cina nel 2030 il surplus di uomini dovrebbe arrivare alla cifra impressionante di 30 milioni. Le ragazze delle zone rurali tendono perciò a spostarsi nelle città per migliorare il lavoro, ma anche per trovare mariti più benestanti. Molti uomini che non sono un «buon partito» restano nei villaggi senza più la possibilità di trovare una sposa, invecchiando poveri e soli.
Quali sono le principali ingiustizie che devono affrontare i migranti in Cina? La maggiore è senz’altro il sistema dell’hukou. Dal momento che i servizi sociali nella Cina continentale si basano su questa registrazione della residenza in una città, i lavoratori migranti sono esclusi dai benefici della crescita economica che interessa gli stessi luoghi in cui lavorano. Normalmente i lavoratori senza hukou hanno condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi. Circa un quarto riceve meno di mille yuan al mese (128 euro), senza contare che l’affitto, in media, si porta via il 27% dei salari. Più di metà dei migranti (52%) è escluso da ogni sistema di previdenza sociale, non riceve perciò né assegni né assistenza sanitaria dopo il pensionamento. Gran parte dei lavori svolti non dà né qualifiche tecniche né competenze professionali.
C’è speranza che il sistema dell’hukou venga cambiato dalla prossima leadership? Negli ultimi anni la riforma del sistema è stata un tema centrale per i lavoratori migranti, ma anche per i gruppi di difesa dei lavoratori e gli studiosi. Il primo ministro Wen Jiabao ha di recente annunciato un investimento di 800 miliardi di yuan in sussidi agli agricoltori per ridurre il divario tra campagne e città. Secondo molto studiosi della Cina continentale, il governo usa il sistema dell’hukou per evitare che le autorità locali spendano fondi pubblici in salute, istruzione e altri servizi sociali per i non residenti in questa fase di rapido sviluppo economico. Chi vuole difendere i diritti dei lavoratori è concorde nel ritenere che l’abolizione dell’hukou renderebbe la società cinese più giusta. Ormai il governo riconosce implicitamente l’ingiustizia del sistema, ma molti temono che la sua abolizione sarebbe disastrosa perché causerebbe un flusso incontrollato verso le città, superiore all’offerta di alloggi e trasporti, favorendo un aumento del crimine e della disoccupazione.
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