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Immigrato, volontario
27 gennaio 2012
«Se credi in alcuni valori, non importa dove ti trovi. Puoi abitare in Marocco o in Italia, in Tunisia o in Francia ma quei valori sono dentro di te e farai di tutto per metterli in pratica. Chi era abituato a lavorare per gli altri in patria, prima o poi, farà lo stesso nel Paese di adozione. Al di là di barriere linguistiche e religiose». Rahim Benachour, marocchino, vive da dieci anni in Italia, dove ha trovato un buon lavoro come contabile e ha formato una famiglia. Prima di emigrare in Europa, mentre studiava, si dedicava al volontariato, aiutando i bambini disabili e quelli che vivevano in orfanotrofio. Arrivato in Italia, si è subito dedicato a chi aveva più bisogno. Insieme ad altri stranieri e a un gruppo di italiani ha dato vita a «Genti di pace», che si occupa degli anziani nelle case di riposo.
Come Rahim, molti immigrati si dedicano al volontariato. Se si trattasse di solidarietà nei confronti dei propri connazionali non ci sarebbe nulla di sorprendente. La vera novità è che iniziano a moltiplicarsi i casi di immigrati che aiutano italiani e stranieri di altre nazionalità svantaggiati (disabili, anziani, tossicodipendenti, emarginati, ma anche nel settore delle donazioni di sangue e di organi). «Il fenomeno si sta estendendo in tutta la penisola - spiega Annamaria Fantauzzi, docente di Antropologia medica e culturale all’Università di Torino - ed è un modo attraverso il quale l’immigrato dimostra la sua volontà di partecipare alla vita sociale italiana. Ma è anche un modo per “restituire” quanto si è ricevuto. “Quando avevo bisogno - è il loro ragionamento - c’è stato qualcuno che mi ha aiutato. Ora che ho trovato un lavoro e una casa, cerco di aiutare chi ha bisogno”».

VICINI AGLI ANZIANI
Il movimento «Genti di pace», nato in seno alla Comunità di Sant’Egidio, è stata una delle prime iniziative di solidarietà organizzate da immigrati. «Nel 1997 - ricorda Anna Cimoli, membro della Comunità - abbiamo aperto una scuola di lingua e cultura italiana. Nelle intenzioni dei fondatori, questa scuola doveva essere un’occasione per gli stranieri per imparare l’italiano, ma anche per entrare in contatto con la nostra cultura e con la comunità locale». Sui banchi di scuola c’erano persone di estrazione diversa ma, nonostante le differenze, gli studenti hanno iniziato a frequentarsi fuori dalle aule. «Molti - continua la Cimoli - hanno iniziato a mettere a di­sposizione la loro esperienza e il loro tempo libero per la costruzione di una società che cresce nella convivenza, nella pace e nel dialogo. È emersa la convinzione che vivere a Milano non deve essere un transitare “neutro” in una città straniera, ma deve lasciare una traccia fatta di convivenza e integrazione. Una cinquantina di essi danno così vita nel 2003 al movimento “Genti di pace”».
Sono persone dai 20 ai 60 anni che nella vita fanno lavori diversi e provengono da Paesi differenti. La domenica iniziano a recarsi alla casa di riposo «Virgilio Ferrari», assistono alla messa e fanno visita agli anziani. Viene organizzato un pranzo al quale è invitato chi può partecipare. In estate, poi, gli anziani vanno in vacanza in una struttura sul Monte Baldo (Vr) e alcuni stranieri li assistono (spendendo parte delle ferie). A Natale gli ospiti della casa di riposo vengono invitati al pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e i membri di «Gente di pace» servono ai tavoli. «Nessuno dei volontari si percepisce come straniero - osserva la Cimoli -, ma come una persona che offre solidarietà a chi ne ha bisogno. Ciò che spinge gli stranieri è il desiderio di costruire una comunità integrata che, al di là delle differenze culturali e religiose, sappia favorire la convivenza pacifica». Iniziative simili si sono poi replicate in diverse città italiane (per esempio a Roma). «Io sono musulmano - osserva Rahim - e l’islam dà grande valore alla solidarietà. Il precetto biblico “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” ha un grande valore anche nella tradizione islamica. Abbiamo scelto di lavorare insieme alla terza età perché pensiamo che la società stia emarginando gli anziani. Stare vicino a loro per noi stranieri ha anche un altro valore. Abitando in Italia non possiamo accudire i nostri genitori, andare nelle case di riposo è quindi come stare vicino ai nostri cari».

PELLEGRINAGGI A LOURDES
«La presenza degli stranieri non è continua, anzi direi che è una collaborazione saltuaria - spiega Salvatore Perrone dell’Unitalsi di Lecce -, ma è importante. Da tre o quattro anni partecipano alle nostre attività associative e, talvolta, anche ai nostri pellegrinaggi a Lourdes. Sono senegalesi, marocchini, albanesi, camerunensi, romeni. La maggioranza è musulmana, ma il fatto stesso che partecipino alle nostre iniziative, comprese le messe, significa che rispettano le tradizioni italiane e le accettano senza problemi, pur continuando a essere musulmani». L’Unitalsi di Lecce ha sede nel Centro Matteo Venticinque, punto di accoglienza dei disabili e di ritrovo degli immigrati in cerca di lavoro, casa, assistenza. «Questi stranieri, che vengono per cercare sostegno - prosegue Perrone -, incontrano la realtà dell’handicap. Ne sono così colpiti che molti di loro si offrono volontari. È così nasce la collaborazione. Non hanno compiti specifici: aiutano i disabili nelle attività ricreative (disegnano, scrivono, ecc.) e, quando i disabili in carrozzella devono spostarsi, li accompagnano. Credo che la maggior parte di loro voglia ricambiare l’accoglienza fraterna e sincera che hanno sperimentato nel nostro centro. Il fatto che in momenti di difficoltà abbiano ricevuto un aiuto gratuito è per loro un valore aggiunto. Da qui deriva il desiderio di restituire quanto hanno ricevuto. Il volontariato è lo strumento più semplice e immediato per farlo».
Alcuni di essi partecipano anche ai pellegrinaggi a Lourdes. Spesso questi immigrati non hanno i soldi per il viaggio, così è l’Unitalsi a farsi carico delle spese. «L’esperienza a Lourdes - ricorda Paulin Koussieu, 32 anni camerunense - è stata toccante. Pregare con i malati non può non lasciarti il segno. Ma anche accudirli è stato molto importante per me: assisterli giorno e notte mi ha fatto cambiare il modo di guardare la vita. Il rapporto con i malati è sempre stato ottimo. Nonostante fossi straniero mi hanno accolto con gioia. Con loro e le loro famiglie non ho mai avuto problemi. Anzi, proprio il contatto con i disabili, le loro famiglie e i volontari italiani mi ha fatto sentire integrato nella società italiana».

PARTIRE DAI GIOVANI
Anche a livello di politiche sociali, il volontariato è sempre più considerato un mezzo per favorire l’integrazione. E alcuni enti locali stanno investendo risorse proprio nella promozione del volontariato tra gli immigrati. È il caso della provincia di Parma, che a ottobre ha deciso di varare il progetto «Tutti dentro». «Nella nostra provincia - spiega Valentina Calegari dell’assessorato ai Servizi sociali - la presenza di immigrati è forte. Il volontariato può diventare uno strumento che aiuta gli stranieri, in particolare i giovani, a entrare a pieno titolo nel tessuto sociale locale. Non solo, ma potrebbe permettere anche di rafforzare l’associazionismo locale. Molte associazioni infatti sono composte da volontari di età adulta e diventa necessario rimpolpare le fila di queste organizzazioni per permettere loro di avere un futuro».
I responsabili della provincia hanno incontrato le associazioni di immigrati. Queste si sono rese disponibili a indicare i nominativi di giovani immigrati disposti ad avviare un percorso di conoscenza del volontariato. Verrà poi organizzato, entro febbraio, un incontro con questi ragazzi immigrati, insieme ai loro coetanei italiani. Ai ragazzi verrà chiesto cosa pensano del volontariato e se intendono entrare nel mondo dell’associazionismo. In base alle risposte saranno poi organizzate uscite per conoscere le diverse realtà associative del territorio. «Il progetto - osserva la Calegari - si concluderà a giugno con la festa multiculturale, un appuntamento fisso in cui le comunità straniere sul territorio e le associazioni italiane impegnate nel lavoro di intercultura presentano le loro attività. In questa sede saranno esposti il progetto e i risultati ottenuti».

DONARE SE STESSI
Anche la donazione di organi e del sangue vede come protagonisti gli immigrati. Se non esistono statistiche in merito alla donazione di organi, ci sono alcune stime sulla donazione di sangue. Nel 2010, le donazioni di sangue sono state tre milioni e centomila. Di queste, l’Avis stima che il 4% sia stato effettuato da cittadini stranieri. In alcune regioni però la percentuale è superiore. In Toscana, per esempio, su 240mila donazioni circa il 10% sono effettuate da extracomunitari. In Lombardia, su 300mila donatori, l’8% è straniero. «Le motivazioni che spingono gli immigrati a donare il sangue sono diverse - spiega Annamaria Fantauzzi -. Gli immigrati utilizzano la donazione come strumento per decostruire le barriere xenofobe e, soprattutto, islamofobe. È un modo per dimostrare agli italiani che anche loro sono in grado di contribuire in modo positivo alla costruzione della società. In secondo luogo, gli immigrati si mettono nella condizione di essere a tutti gli effetti cittadini italiani, cioè non solo coloro che vengono nel nostro Paese a lavorare, ma anche quelli che si ammalano e possono aver bisogno di sangue». Le campagne di sensibilizzazione hanno dato in questi anni ottimi risultati nelle comunità straniere. Per esempio, nel 2005, la comunità marocchina ha organizzato a Torino una giornata di raccolta sangue. Dalle 7 alle 16 gli immigrati sono rimasti in fila a digiuno. Alla fine sono state effettuate in un solo giorno più di 100 donazioni.
«Le comunità più disposte a donare sono quelle musulmane - continua la Fantauzzi - e, in particolar modo, quelle dell’Africa settentrionale, ma anche romeni, peruviani, indiani. I musulmani provengono da una cultura che favorisce la donazione. Il Corano e molte fatwa invitano i fedeli a interagire con la società e soprattutto con le società “altre”. Quando si chiede a un musulmano di spiegare perché dona il sangue quasi sempre cita la sura 5,32 del Corano che recita: “(...)…chi abbia salvato (un uomo), sarà come se avesse salvato tutta l’umanità”. Ho proposto all’Avis nazionale di effettuare campagne di raccolta di sangue nel corso del ramadan. In quel periodo, infatti, i musulmani sono più propensi al dono gratuito. Si farà anche in Italia? Spero di sì, anche perché i musulmani sollecitano queste raccolte».
Anche la donazione degli organi inizia a farsi strada tra i nuovi italiani. «Alcuni stranieri - spiega Vincenzo Passarelli, presidente nazionale dell’Aido - negli ultimi anni hanno acconsentito alla richiesta di donare gli organi dei propri cari. La prima donazione di organi da parte di cittadini di origine straniera è avvenuta in Veneto, la regione che, a torto o a ragione, viene considerata la più ostile all’immigrazione. Altri casi si sono registrati in Toscana, Emilia Romagna, Sicilia. La nostra associazione apprezza questa disponibilità. Diamo molta importanza a questi gesti che sono la dimostrazione di come molti immigrati si sentono così integrati da avvertire l’esigenza di donare gli organi, cioè una parte di sé, alla comunità che li ha accolti».
Spesso gli operatori dell’Aido si trovano di fronte alla diffidenza degli immigrati. Molti di loro, sviati da erronee interpretazioni religiose, si dichiarano ostili alla donazione. «Ma lavorando sul piano religioso e culturale è possibile superare i pregiudizi e le visioni sbagliate della donazione - continua Passarelli -. Sotto questo profilo siamo molto attivi nelle scuole. I ragazzi di origine straniera diventano un ponte tra la nostra associazione e le famiglie e si fanno portatori di una corretta visione della donazione».

NON SOLO SUCCESSI
Il volontariato degli immigrati trova però anche l’ostilità di una parte degli italiani, soprattutto i più anziani. Il caso di via Padova a Milano è esemplare. «Ti regalo un’ora del mio tempo» è un’iniziativa attraverso la quale il Comitato stranieri «Avanti insieme» offre agli anziani del quartiere un aiuto per fare la spesa o sbrigare altre incombenze. «Sappiamo che ci sono anziani che vivono soli - spiega Siddy, 23 anni, senegalese -, così abbiamo deciso di dare loro una mano. Siamo giovani, provenienti da Senegal, Perù, Bolivia, Polonia, Ucraina. Abbiamo deciso di lanciare questo progetto perché ci sentiamo parte di questa comunità e vogliamo fare qualcosa per chi vive vicino a noi, soprattutto i più bisognosi».
Nonostante abbiano fatto molta pubblicità all’iniziativa, nessun anziano li ha però contattati per usufruire dei loro servizi. «Siamo un po’ amareggiati - continua Siddy -, ma non ci scoraggiamo. Comprendiamo la diffidenza delle persone. E, probabilmente, anche noi non riusciamo a comunicare bene le nostre intenzioni. Ma rimaniamo a disposizione di chi voglia farsi aiutare. Siamo fiduciosi».
Enrico Casale

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