«Vorremmo creare una nostra cooperativa», dice Nageswari, una delle ragazze che l’anno scorso ha frequentato il corso di cucito e quest’anno segue quello di informatica, parlando della necessità e del desiderio, per alcune di loro, di creare una piccola attività produttiva nel proprio villaggio. Nageswari vive nell’estremo sud dell’India e l’esperienza sua e delle compagne si può considerare una piccola goccia nell’oceano, ma anche un buon segno di cambiamento nella condizione femminile in India.
Nonostante siano state approvate nuove leggi per raggiungere una vera parità tra i sessi, la tradizione radicata nei secoli considera il genere femminile subalterno a quello maschile. Una delle conseguenze più oscure che questo status sociale porta con sé è rappresentata da ciò che l’economista bengalese e premio Nobel, Amartya Sen, definisce come il «mistero delle donne mancanti»: quelle donne che esisterebbero oggi se non fosse per l’aborto selettivo, l’infanticidio e la discriminazione socio-economica.
Secondo i dati dell’Onu, in Asia il divario tra il numero di uomini e donne è particolarmente elevato: circa cento milioni di ragazzi in più rispetto alle ragazze. In molte società asiatiche, le femmine godono di minore attenzione rispetto ai maschi perché sono economicamente sottovalutate. Il lavoro domestico, in genere, è visto come meno importante del lavoro retribuito svolto dagli uomini e, a parità di impiego, una donna percepisce fino a un terzo del salario di un uomo.
In India, il secondo Paese più popoloso del pianeta con più di 1,2 miliardi di persone, questo fenomeno assume una dimensione molto rilevante. Gli uomini, secondo il censimento concluso l’anno scorso, sono 37 milioni più delle donne.
Tenendo conto, inoltre, dei miglioramenti generali delle strutture igienico-sanitarie avvenuti nell’ultimo mezzo secolo, che hanno contribuito all’abbassamento del tasso di mortalità e all’aumento della longevità, si intuisce che una delle cause della differenza numerica tra i generi è la discriminazione sociale e culturale: il miglioramento della sanità e delle risorse alimentari giovano principalmente agli uomini.
«DEBITO» PER LA FAMIGLIA
Per raggiungere il villaggio di Nageswari partendo da Chennai, la capitale dello Stato del Tamil Nadu, prendiamo un treno che scende verso sud, fino ad arrivare nel distretto di Kanyakumari, luogo carico di miti e spiritualità, situato nel punto più meridionale del subcontinente. Dopo una notte di viaggio, ci prepariamo a scendere. Il treno si ferma lentamente, tutti i passeggeri si alzano in un concerto disordinato per recuperare i propri bagagli.
Ad accoglierci c’è John, un uomo corpulento e vivace. È un insegnante e insieme a un gruppo di amici ha costituito un’organizzazione che, da una quindicina d’anni, sostiene direttamente i gruppi più deboli nei villaggi rurali, con alcuni programmi che promuovono i diritti delle donne, incentivano l’istruzione scolastica dei bambini e la prevenzione medica.
Per la popolazione che abita nelle zone rurali e nelle foreste la situazione di disagio sociale per donne e bambini si aggrava ulteriormente. In queste aree, povertà, distanza dai centri abitati e assenza di infrastrutture rendono quasi impossibile l’accesso a scuole e cure di livello. E nei villaggi, dove la cultura e le tradizioni sono più radicate, si manifestano i lati più oscuri di una società caratterizzata da sistemi patriarcali, condizionamenti sociali che incoraggiano la sottomissione della donna al marito e matrimoni combinati.
Già dal momento del concepimento, la femmina sarà un «debito» per la propria famiglia, perché è di passaggio nella casa paterna. Al momento del matrimonio se ne andrà e si dedicherà alla famiglia del marito, non dovrà più niente ai suoi genitori. Crescere una figlia, soprattutto nelle aree più disagiate, equivale ad «annaffiare il giardino del vicino».
I dati per il 2011 dell’Undp, il programma dell’Onu per lo sviluppo, pongono l’India al 129° posto (su 146 Paesi) nell’indice delle disuguaglianze di genere (Gender Inequality Index). Questi valori assumono dimensioni ancora più significative se si considera il grande numero di bambine non denunciate all’anagrafe e al censimento, perché ritenute «irrilevanti». Ma questo non basta a spiegare il fenomeno. Un peso crescente ha soprattutto l’aborto selettivo, reso possibile dalle tecniche di diagnosi prenatale del sesso.
«Meglio soffocare una neonata che farle vivere un’esistenza di stenti e miseria»: a questa tesi spietata gran parte degli studiosi di statistica attribuiscono la «scomparsa» delle femmine e l’elevata mortalità rispetto ai maschi nella fascia da 0 a 5 anni (ogni 1.000 bambini maschi le bambine sono solo 914).
IL RISCATTO NEL VILLAGGIO
Usciti dalla stazione, ci infiliamo in auto e siamo inghiottiti dal cuore della città. Dopo quasi un’ora di coda, riusciamo a imboccare la strada che ci conduce verso l’interno del paese, nella zona in cui John ha avviato una serie di interventi. Gli edifici del centro urbano lasciano pian piano il posto a costruzioni più modeste, molte in argilla e paglia. Dalla strada principale si diramano arterie secondarie in terra battuta che si inoltrano nella foresta o in grandi spazi aperti. Specchi d’acqua rigogliosi accolgono uomini e animali. Bufali neri trovano sollievo dal caldo, mentre donne, chine su una roccia, sfregano con forza per lavare i panni accumulati nella cesta. Il paesaggio scorre veloce e la strada si inoltra in una galleria di alberi, in cui il sole ora penetra a stento tra la fitta coltre di rami. Riflessi di luce segnano il cammino.
Giungiamo al piccolo villaggio nella foresta dopo alcune ore di viaggio. Le abitazioni sono raggruppate sul ciglio della strada, circondate da palme e piantagioni di alberi della gomma. John ci racconta che, all’imbrunire, una sbarra viene abbassata per chiudere l’accesso all’abitato. Qui vivono circa centocinquanta famiglie in case di terra o in muratura con tetti in foglie di cocco.
Gli uomini lavorano nella foresta e nelle piantagioni come raccoglitori di caucciù, guadagnando circa 60-80 rupie al giorno (l’equivalente di un caffè in Italia), ma nella stagione dei monsoni, che dura quattro o cinque mesi all’anno, sono senza occupazione.
Le donne non hanno un’attività lavorativa retribuita, coltivano i campi e accudiscono gli animali. I figli frequentano una scuola non molto distante, ma la maggior parte non ha l’opportunità di studiare dopo i 14 anni, perché le scuole superiori sono lontane e costose. Sono proprio queste condizioni a favorire l’accentuarsi di episodi di violenza familiare e discriminazione di genere, fino a raggiungere in molti casi conseguenze anche più gravi.
Scendiamo dalla vettura. Subito siamo circondati da bambini in festa e donne che ci accolgono con collane di fiori, salutandoci con un piccolo inchino e le mani giunte sul petto. «Namasté», dicono, cioè «onore alla divinità che è in te».
John, dopo averci presentato alcuni abitanti del villaggio, ci conduce al centro gestito dalla sua organizzazione. Tolti i sandali, entriamo.
L’ambiente è semplice, composto da un unico salone, dove sono presenti macchine da cucire a pedali e donne intente a ricamare, tagliare tessuti e intrecciare fiori di stoffa. Una piccola parete divisoria separa un angolo in cui sono posizionati alcuni computer. In questa sede, grazie anche all’aiuto di alcune Ong italiane, sono stati avviati corsi di sartoria e informatica rivolti specificamente alle ragazze del villaggio. Negli anni l’iniziativa si è evoluta, richiamando anche persone dai villaggi vicini.
Il progetto è basato sul modello del microcredito e ha come obiettivo promuovere un ruolo attivo della donna all’interno della famiglia e del villaggio, attraverso il lavoro come via di emancipazione. E si incentiva il cooperativismo come forma d’impresa sociale.
NONOSTANTE I MARITI
Alcune ragazze raccontano come è nato il progetto. Inizialmente, otto anni fa, quando si pensò di creare un luogo in cui le donne potessero riunirsi per svolgere un’attività al di fuori della famiglia, i mariti e in generale gli uomini del villaggio manifestarono il loro completo dissenso.
Durante le riunioni con i rappresentanti della comunità organizzate per esporre il progetto, alle donne non era permesso presenziare, non potevano in alcun modo esprimere la loro opinione.
Tra varie difficoltà e dubbi, vennero avviati i primi corsi di sartoria. Quando, alla fine dell’anno di formazione, furono consegnati i diplomi, venne organizzata una grande festa nel villaggio a cui parteciparono tutti gli abitanti.
Alla conclusione del corso, le macchine per cucire sono state consegnate alle ragazze che ne hanno fatto richiesta, le quali, con le conoscenze acquisite, hanno potuto iniziare a lavorare e a ripagare le attrezzature, dando così alle nuove alunne la possibilità di acquistarne altre. In questo modo si responsabilizzano le donne sull’amministrazione delle risorse e si consente loro di ottenere un piccolo reddito aggiuntivo per la famiglia.
Da allora, anno dopo anno, la consapevolezza delle donne è aumentata. Le ragazze hanno preso sempre più coscienza delle loro potenzialità. Allo stesso tempo, gli uomini hanno accettato gradualmente questo cambiamento, vivendolo come un miglioramento, soprattutto della propria condizione famigliare.
L’evoluzione di questa iniziativa è stata la richiesta, da parte delle donne stesse, di avviare anche corsi di informatica e un servizio di doposcuola per i figli. La proposta è stata accettata e sono stati realizzati anche campi medici periodici per cure e prevenzione.
È in questa occasione che conosciamo Nageswari, una delle ragazze più intraprendenti, che ci rivela anche sogni e desideri futuri, come quello di creare una piccola cooperativa di sartoria. «Alcune di noi hanno cominciato a lavorare in città, altre lavorano a casa propria su commissione di imprese tessili», racconta. Ogni anno si diplomano almeno venti ragazze nel corso di cucito e quindici in quello di informatica. Il diploma è riconosciuto dal governo e ciò permette loro di trovare impiego presso aziende o di avviare piccole attività in maniera indipendente. Alla consegna degli attestati partecipano sempre autorità note nella regione ed è un’occasione per divulgare un messaggio di cambiamento.
Testo e foto di Simone Nascetti