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Italia-Libia, una vera svolta?
11 novembre 2010
Il 9 novembre il governo Berlusconi per tre volte è stato battuto alla Camera nel corso della votazione di altrettante mozioni relative al Trattato di amicizia Italia-Libia. I media hanno dato grande risalto alla notizia. D’altra parte era il primo voto alla Camera dopo il discorso di Fini a Perugia (in cui di fatto si «sganciava» dall’attuale maggioranza), l’esecutivo perdeva il sostegno proprio dei finiani e, per la prima volta, toccava con mano la possibilità di una crisi e di nuove elezioni. L’analisi delle tattiche politiche ha così preso il sopravvento negli editoriali ed è passata in secondo piano la sostanza delle tre mozioni, che rappresentano una svolta nell’interpretazione del Trattato.
Come si ricorderà, il 30 agosto 2008 il premier italiano, Silvio Berlusconi, e il leader libico, Muammar Gheddafi, hanno siglato un’intesa nella quale la Libia si impegna a un maggiore controllo dei flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana in cambio della fornitura dei mezzi (navali e terrestri) necessari al pattugliamento delle frontiere e di un forte investimento italiano nelle infrastrutture libiche (soprattutto nella realizzazione della autostrada litoranea Tripoli-Bengasi). Nel Trattato non si fa cenno al rispetto dei diritti umani degli immigrati (vale la pena ricordare che Tripoli non ha ratificato la Convenzione Onu sui rifugiati). Anzi, da parte italiana si è spesso chiuso un occhio (qualche volta tutti e due) di fronte alla violenza con la quale la polizia libica trattava (tratta?) gli immigrati e di fronte al rimpatrio di molti di questi immigrati, alcuni dei quali provengono da Paesi governati da regimi dittatoriali o sconvolti da guerre decennali. Gli esponenti governativi hanno inoltre speso poche parole e di circostanza quando il governo di Tripoli, la scorsa estate, ha chiuso d’autorità l’ufficio dell’Acnur (l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati).
I tre emendamenti approvati ieri non segnano una rottura netta con la politica estera del governo Berlusconi. In uno dei testi approvati, infatti si invita l’esecutivo a proseguire «nell’attuazione degli impegni sanciti dal Trattato» e «nella collaborazione con Tripoli in materia di lotta all’immigrazione clandestina», quella lotta che, in questi ultimi mesi, «ha consentito un radicale ridimensionamento nell’afflusso dei clandestini sulle coste italiane». Nelle mozioni però si parla (finalmente) di diritti umani. Si chiede al governo di «svolgere un ruolo di stimolo sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali» e di impegnarsi «a sollecitare con forza le autorità di Tripoli affinché ratifichino la Convenzione Onu sui rifugiati e riaprano l’ufficio dell’Acnur quale premessa per continuare le politiche dei respingimenti dei migranti».
La svolta, pur tardiva, è positiva. L’attenzione ai diritti umani toglie, almeno in parte, l’impressione che il Trattato fosse nei fatti una mera intesa commerciale giocata sulla pelle degli immigrati. In questo senso ci paiono esagerate e fuori luogo le prese di posizione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e di quello degli Esteri, Franco Frattini che paventano la possibilità di «rivedere i barconi di disperati sulle nostre coste». Pretendere dalla Libia il rispetto dei diritti umani degli immigrati non significa essere clementi con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di persone, né aprire indiscriminatamente le frontiere. È solo un modo per applicare quei criteri di umanità che un Paese, come l’Italia, che si vanta di essere una democrazia consolidata, non dovrebbe dimenticare.
Ci rimane però un dubbio di fondo. Perché i finiani, che per due anni hanno sostenuto il Trattato e politiche migratorie fortemente restrittive, ieri hanno deciso di votare gli emendamenti? Si è trattato solo di una scelta tattica, di un «avvertimento» a Berlusconi, oppure nel centro-destra si fa strada un approccio ai temi dell’immigrazione diverso dalla «faccia cattiva» che piace tanto alla Lega?
Enrico Casale

© FCSF – Popoli