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L'Europa e il demos che non c'è (ancora)
11 giugno 2012
Ipocrisia è una delle molte parole che i greci hanno dato alle lingue europee. Finzione è uno dei suoi significati, ypokritès è l’attore che recita una parte. Oggi appaiono ipocriti i mille richiami alla pace e alla democrazia che hanno accompagnato sessant’anni di progetto europeo, invocazioni di radici (cristiane e non), ideali illuministici, valori di una civiltà comune. Non suona forse falso creare uno spazio continentale di libera circolazione e diritti condivisi per poi trasformare le frontiere in fortezza, rinchiudere gli indesiderati (talvolta anche minori e richiedenti asilo) nei centri di espulsione?
Ha stancato l’ipocrisia di enunciare ideali e poi agire solo in nome degli interessi. È stata sempre data la precedenza alla dimensione economica, dal carbone-acciaio al mercato comune, fino all’unione monetaria. L’idea di fondo delle leadership nazionali è che un demos europeo non esista né potrà mai esistere. Dietro la retorica si è costituito un club economico, senza organizzare partiti europei e redigere una vera Costituzione. Così la Ue è sempre più spesso vista come la responsabile di decisioni che minano le sicurezze di vita di molti. In ultima analisi, la crisi economico-finanziaria è diventata crisi dell’Europa e del suo senso, per come è stata disegnata.
È anche il risultato di una politica inadeguata nel far fronte ai problemi che certa finanza ha creato. Non si vedono all’orizzonte proposte di autentica riforma di un capitalismo globale divenuto ipertrofico nella sua dimensione finanziaria. Le sue logiche, anche se di parte, sono ancora considerate garanti di un interesse generale. 
In un recente incontro con il numero uno del Wto, un gruppo di gesuiti europei osservava che la crisi non è slegata da una fede cieca nel libero commercio, nella mobilità sfrenata dei capitali, nel dumping fiscale e salariale, nel credito al consumo come rimedio a tutti i mali. Questa «idolatria» è parte del problema.
Come constatano i greci, non stiamo vivendo solo una crisi finanziaria, ma una crisi morale. Se gli Stati europei non sanno darvi risposta - con buona pace di nazionalisti e localisti - dimostrano di essere anacronistici come erano i piccoli Stati italiani e tedeschi che, in un secolo di rivoluzione economica come l’Ottocento, furono sostituiti da forme politiche più grandi.
È del 23 maggio un segnale promettente: l’approvazione a grande maggioranza nell’europarlamento di una tassa sulle transazioni finanziarie. L’ultima parola spetta agli Stati, ma l’iniziativa è partita dall’istituzione Ue più democratica. D’altra parte, con lo scontento popolare cresce la richiesta di determinare nel voto il proprio futuro. Ma ciò è possibile solo promuovendo un’informazione di respiro continentale e la partecipazione democratica sempre più consapevole, giocata nel confronto-scontro tra opinioni e interessi divergenti che travalicano l’appartenenza nazionale: ad esempio tra chi, in Grecia come in Italia o in Germania, approfitta o è vittima dell’evasione fiscale; incentiva o subisce il lavoro precario; si avvantaggia o soffre della divaricazione dei redditi; offende o difende gli immigrati e l’ambiente. Stato nazionale e mercato senza regole sono stati miti del loro tempo. Ora ne servirebbero di nuovi.

Francesco Pistocchini



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