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La famiglia e il villaggio
9 maggio 2012

Si apre il 30 maggio a Milano il settimo «Incontro mondiale delle famiglie», noto anche come Family 2012. Un evento in cui la Chiesa mette al centro la famiglia, le sue risorse e le sue difficoltà. Popoli ha affrontato questi temi con due coppie che, 35 anni fa, dopo un’esperienza in Africa hanno importato in Italia un segreto e lo hanno condiviso.


Campagna milanese fino a non molti anni fa, oggi Villapizzone è stata assorbita dalla metropoli del cemento e della speculazione edilizia. A un chilometro in linea d’aria sorge il polo fieristico che, tra il 30 maggio e il 3 giugno, sarà il teatro di numerosi eventi dell’Incontro mondiale delle famiglie. Incuneata tra svincoli autostradali e passante ferroviario, resiste quasi come un’oasi una grande cascina ristrutturata (e semi-rifatta dopo un incendio), in cui dal 1978 vivono alcune famiglie in spirito comunitario.

Fondatori di questa esperienza, che oggi si è data una struttura associativa e che coinvolge altre 29 comunità sparse per l’Italia, sono quattro coniugi: Bruno ed Enrica Volpi, Massimo e Danila Nicolai. I Volpi arrivarono qui nel 1978 (da alcuni anni si sono però trasferiti in un’altra comunità, a Berzano di Tortona, in provincia di Alessandria), i Nicolai l’anno dopo. Insieme a loro, in spazi distinti, vivevano e vivono alcuni gesuiti: una particolarità di Villapizzone, che non si ritrova nelle altre comunità.

Incontriamo le due coppie in una sala che dà sul giardino comune alle varie abitazioni. Fuori, le voci di bambini e ragazzi
preannunciano la festa di compleanno di Gabriele, un bambino ciadiano che è stato ospite con la sua famiglia a Villapizzone. Avevamo preparato una lunga serie di domande, presto però ci rendiamo conto che questa non sarà un’intervista, ma un dialogo spontaneo, ricco, a volte nostalgico, che ripercorre decenni di una speciale amicizia tra famiglie.

La famiglia oggi è diversa da quella dei vostri primi anni qui? Se sì, in che senso?
Bruno - Nel 2012 festeggeremo le nozze d’oro. In 50 anni ne abbiamo viste tante e la vita che abbiamo fatto ci ha aiutato a ragionare sulla famiglia. Abbiamo visto di tutto: il bello della famiglia, ma anche i guai che essa produce. Una volta uno dei ragazzini che avevamo in affido mi disse: «Cosa vuoi da me che non sei mio padre». «E allora?», gli ho chiesto un po’ disorientato. E lui: «E allora guarda tua moglie». Questo è stato un segnale importante per noi due, che rischiavamo di diventare «operatori» della famiglia. Questo ragazzo, che era stato «tradito» dall’amore, non voleva le coccole, le attenzioni. Voleva che noi due ci facessimo le coccole. Ci ha ributtato nelle braccia l’uno dell’altra. Il suo ragionamento era, banalizzando un po’: «I miei litigavano e io sono finito in istituto. Se questi due non funzionano, ci finisco di nuovo». Così abbiamo capito che il centro della famiglia non è il figlio, ma la coppia. E questo credo sia un tema chiave anche oggi, perché ci sono figli traditi dall’amore, ma alcuni anche soffocati dall’amore.
Danila - Tempo fa Bruno disse che c’era un «consumismo affettivo» dei genitori nei confronti dei figli. A me questa espressione non piaceva e glielo avevo detto. Dopo qualche anno ho dovuto ricredermi. In effetti credo ci sia uno sbilanciamento affettivo. Spesso non diamo ai figli quello che i figli chiedono, ma quello che appaga la nostra coscienza. È proprio vero che a fare i genitori impariamo a spese dei nostri figli… Quando si parla di stile di vita sobrio bisogna considerare anche questo bilanciamento affettivo, questa sobrietà affettiva.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli dice che si cura il diabete e il colesterolo, ma non si cura la vita di coppia. Noi abbiamo avuto il grande dono della comunità che ci ha aiutato in questo senso. Ciò che spesso colpisce i giovani sposi (ma non solo) che avvicinano la comunità è proprio la cura della coppia. Si sente il bisogno e l’importanza di quello che diceva quel ragazzo: «Guarda tua moglie!».
Massimo - Credo sia fondamentale la questione del tempo. La vita che facciamo a Villapizzone ci aiuta a essere famiglia, perché ci aiuta a essere più presenti come genitori e di mostrarci ai figli come sposi e come persone che hanno valori, sogni, obiettivi. Questo è il punto, non tanto il dialogare. I nostri figli ci hanno visto agire nel quotidiano. Abbiamo fatto vedere tutto di noi…
Bruno - Anche le nostre miserie… Del resto questi ragazzi erano lì per provocarci, per «prenderci le misure»…
Enrica - Però è anche vero che ci perdonavano.

IL CAFFÈ DI DANILA
Bruno - Mi viene in mente un proverbio africano: dice che per educare un bambino ci vuole il villaggio. Attualizzandolo, si potrebbe aggiungere che una coppia per non impazzire ha bisogno del villaggio. Io quando ero un po’ agitato passavo dai Nicolai e il caffè di Danila c’era sempre. Lei non diceva una parola, io non dicevo una parola, però andavo via rasserenato. Nel villaggio ognuno sa qual è la sua casa, però ha anche la casa di riserva...
Enrica - E le famiglie vicine non erano presenti solo quando avevamo bisogno noi, ma anche per i nostri figli, quando erano un po’ in crisi.
Danila - Noi abbiamo avuto e abbiamo tuttora una sorta di formazione permanente nel quotidiano, fatto di piccole cose.
Enrica - Come il famoso «bicchierino di me-ne-frego» di Giangiacomo: tutte le mattine, diceva, bisogna bere un bel «bicchierino di me-ne-frego». Solo un bicchierino però, non troppo...
Danila - ...o la definizione del professor Mario Mozzanica: «Villapizzone come università del quotidiano».
Bruno - Lui che è un esperto di servizi sociali, analizzando Villapizzone ha detto: «Lì ci sono i servizi sociali, senza esserci davvero». Non eravamo e non siamo una comunità di servizio sociale. Ma facevamo un servizio, per il semplice fatto di essere una comunità.
Danila - E questo anche grazie alle persone che si sono aggregate, che non mi piace chiamare svantaggiate, che sono state maestre di vita.

IL LAVORO, I SOLDI, LA FESTA
Le due «parole-chiave» dell’Incontro internazionale delle famiglie saranno «lavoro» e «festa». Vivere in un «villaggio» significa anche guardare con spirito diverso a queste due dimensioni?
Bruno - Partirei da questa considerazione: bisognerà arrivare a pensare che la famiglia non ha bisogno di altre carriere per realizzarsi, una persona si realizza con la famiglia. Perché i religiosi hanno una vocazione sola e noi dobbiamo averne due? I laici si sposano però devono anche realizzare la vita attraverso il lavoro, perché la famiglia non basta. Ecco, in comunità non è così: il lavoro per noi era ed è un mezzo. Ho spazzato cantine per vent’anni non certo perché mi sentivo realizzato, ma perché mi dava la possibilità di realizzare la famiglia, quell’esserci di cui parlavamo prima. Certo, questo è sostenibile perché non eravamo soli. Da soli è impossibile, anche economicamente non ce la fai.
Aggiungo una riflessione sul rapporto tra donne e lavoro. Oggi vedo la difficoltà per la donna di essere mamma. «Sai - mi diceva una giovane -, noi abbiamo studiato, siamo laureate, abbiamo messo in moto i neuroni… Come facciamo adesso a fermarci, a stare a casa con uno, due, tre bambini, fare da mangiare...». Magari mi sbaglio, ma a me sembra, guardando Enrica e Danila, che non abbiano sacrificato la loro vita a fare la moglie o la mamma. Qui hanno fatto la moglie, la mamma, ma anche la psicologa, l’assistente sociale, di tutto.
Danila (ridendo) - Aggiungerei l’assistente spirituale, persino a qualche prete… Ricordo una volta in cui ero in cucina con un’altra persona della comunità. Era successo qualcosa di triste, ora non ricordo, e ci stavamo consolando a vicenda. È passata un’insegnante che usciva dal consiglio di classe e ha detto: «Prima di andare a casa e rompere la testa a mio marito e ai figli ho pensato di passare da voi che siete così serene». Noi pensavamo che ci prendesse in giro, ma forse non ha colto una fatica che c’era, ma questa era condivisa. È proprio vero che le fatiche condivise si dimezzano e le gioie si moltiplicano, noi lo sperimentiamo.
Bruno - La comunità non risolve i problemi. Ma rimangono problemi e non diventano drammi.
Enrica - Tornando al discorso del ruolo femminile, agli occhi degli altri potrebbe sembrare un sacrificio ma, se lo si guarda dal lato positivo, è rendere sacro quello che fai.
Massimo - La comunità armonizza tutto: la famiglia, il lavoro, la festa, il tempo libero. Domenica scorsa siamo andati in un grande centro commerciale a prendere alcune pianticelle che altrimenti buttano via. Era strapieno. Era impressionante vedere questa gente, la domenica pomeriggio, con i bambini...
E sulla festa aggiungo quello che dice Jean Vanier: «La comunità è il luogo del perdono e della festa». Può esserci festa solo se c’è perdono.
Bruno - Anche se il perdono non è esplicito. Ricordo che con qualcuno si faceva qualche riunione serale un po’ burrascosa, e al mattino mi trovavo la torta sul tavolo per fare colazione…
Enrica - Ci si guarda negli occhi e si ricomincia.

Parlare di lavoro, così come di tempo libero, significa parlare anche di rapporto con il denaro e con le cose...
Bruno - Noi veniamo da una società povera. Oggi la gente viene da una società che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi e stiamo vedendo i risultati. Altro che «decrescita felice», sarà dura. Ci sono bisogni indotti da cui è difficile liberarsi. Oggi se non si fanno 2-3 periodi di vacanza in un anno non si è contenti. Ma perché c’è questo bisogno di vacanza? Vacanza vuol dire fare quello che ti piace. Io lo faccio tutto l’anno. Anche lo stile di vita, ad esempio l’abitare, mette in discussione l’economia, l’uso corretto delle risorse. Se vivo in un certo modo avrò bisogno di un tot di soldi, è chiaro che se vivo in un altro modo avrò bisogno di molti più soldi.
Massimo - Vivere in una comunità, ma in una comunità che non è un’isola, ci insegna che è importante usare la coscienza riguardo al denaro, perché noi potremmo compilare l’assegno in bianco mensile con qualunque cifra. Cosa forma la nostra coscienza? Secondo me la forte vicinanza con il mondo che c’è fuori di qui. Per esempio la consapevolezza che c’è gente che ha perso il lavoro e fa fatica a mangiare. Come posso io concedermi di andare in vacanza 2-3 volte all’anno quando so che ci sono persone che devono privarsi di certe cose? I nostri bisogni sono calcolati anche in funzione di questi bisogni che ci sono fuori. E questo è ciò che non fa di Villapizzone un’isola felice, se non dal punto di vista della qualità delle relazioni.
Danila - La cassa comune spaventa alcuni ma in realtà dà una grande libertà, perché non c’è l’assillo che possono avere le altre famiglie. Certo, uno deve spendere meno di quello che entra però non ha l’assillo. L’importante è capire che il mio stare bene non è in funzione consumistica, ma è per condividere con gli altri. Se sto male, non posso permettermi di consolare una persona o di accoglierne un’altra, ma se sto bene e la comunità mi fa star bene, riesco a essere positivo rispetto al disagio. Questa è una scoperta che personalmente ho fatto ultimamente: il grande dono di vivere una qualità della vita non in funzione egoistica, con l’io al centro, ma con una funzione di condivisione.
Bruno - Però insisto nel dire che oggi molte giovani coppie non hanno questo retroterra e i bisogni ce li hanno. A noi tremava la mano nel compilare l’assegno e io contavo sul tuo tremore per essere tranquillo. Oggi tremerà la mano ai nostri amici? Non è una colpa, sia chiaro, è un contesto diverso.

MISSIONE E PROFEZIA
Forse non è casuale che voi quattro, così come molte altre coppie che vivono nelle vostre comunità, abbiate fatto un’esperienza di missione nel Sud del mondo...
Danila - Sì, perché abbiamo dovuto tagliare con la famiglia di origine, con gli amici, con la parrocchia. E se vuoi fare scelte alternative devi essere capace di prendere le distanze.
Bruno - Qualche anno fa abbiamo anche vinto il premio della Focsiv come associazione con più soci che avevano fatto esperienza in missione. Su sei famiglie che ora vivono a Villapizzone solo una ha fatto esperienza di oratorio e non di missione.
Danila - Peraltro la missione la ritroviamo qui, oggi. Quando siamo saliti sull’aereo per tornare in Italia dopo gli anni in Africa ho detto: «Dio toglimi l’Africa ma non togliermi gli africani». E mi ha ascoltato… (ride) E l’esperienza che abbiamo fatto nel Sud del mondo ci aiuta anche nei rapporti con chi è in ricerca nel cammino di fede. Pur essendo andati in Africa con un’associazione che si chiamava Tecnici volontari cristiani eravamo là per testimoniare, non per catechizzare. Anche qui si cerca di testimoniare, mai di imporre. Ho in mente confidenze, lettere di persone che dicono: «Ci avete testimoniato la Parola di Dio, vogliamo conoscerla meglio». Ma è una cosa che è passata per osmosi, per testimonianza appunto.

Si può dire che la vostra, oltre a essere un’esperienza di missione sia stata e sia anche una proposta profetica, coraggiosa. Una profezia e un coraggio che forse oggi scarseggiano, anche nella Chiesa...
Danila - Mi viene in mente lo slogan di un convegno di qualche anno fa a Milano: «Chi non rischia non educa». Ecco, credo che abbiamo vissuto sin dall’inizio il rischio e la sfida; non era una scelta ma quasi una necessità. Abbiamo vissuto dei rischi per un benessere che non conoscevamo ma intravedevamo.
Bruno - E oggi invece dicono: «Sono abbastanza tutelato per fare questa cosa? Che assicurazioni mi dai?». Questo forse è il vero cambiamento che c’è stato. Chi è che ha voglia di rischiare? Bisogna calcolare tutto… La profezia non calcola niente. La profezia è andare allo sbaraglio.
Massimo - Profezia e carne, coraggio e quotidianità. Sono cose che devono procedere insieme...
Danila - Se non sbaglio il Concilio Vaticano II è stato definito una nuova primavera. La primavera è vita nuova, sbocciare, uscire fuori. Ecco, manca forse un ritorno al Vangelo. Noi abbiamo vissuto il Concilio e il ’68 in modo molto forte. Un mese fa siamo stati a Belluno, la mia città, e le persone che ho rivisto hanno fatto scelte un po’ «alternative», non si sono adeguate. Sono tutte persone con cui allora avevamo cominciato ad aprire per la prima volta la Bibbia, perché prima praticamente non si poteva. Al rientro dall’Africa trovammo una Chiesa vecchia. Mi ha colpito, pochi giorni fa, sentire un vescovo che diceva la stessa cosa.
Bruno - Non è così solo nella Chiesa però. Diciamo che la Chiesa oggi non è tanto capace di essere avanti rispetto alla società. Il cristianesimo nasce con dodici pellegrini che non sapevano bene dove andare e cosa fare. E poi succede che un pescatore scrive il Vangelo e questo dopo duemila anni è ancora studiato dai teologi.

Stefano Femminis
Francesco Pistocchini


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