Aleksandr Filei ha un passaporto strano. Ha una copertina di colore diverso dagli altri e sopra c’è scritto nepilson, «non cittadino». Aleksandr è nato e vive in Lettonia, ma non è cittadino lettone, né di nessun altro Paese. È un soggetto con uno status nuovo, che in queste proporzioni non esiste da nessun’altra parte del mondo. «Ci sentiamo come se fossimo stati privati di qualcosa», dice Aleksandr, «E questo passaporto viola è un simbolo del furto, un marchio». Come lui ci sono almeno 300mila persone in Lettonia che non possiedono alcuna cittadinanza, circa il 14% dell’intera popolazione (ma che arrivano a più del 20% nella capitale, Riga). Non sono apolidi, ma nemmeno cittadini di uno Stato estero, sono piuttosto cittadini di uno Stato fantasma, uno Stato che da vent’anni non esiste più, l’Unione Sovietica.
SCARTI DELLA STORIAI nepilson sono un drop out della Storia, vite macinate tra le maglie dei grandi avvenimenti del XX secolo, un problema che affonda le radici nella disgregazione dell’Urss e nel risentimento dei lettoni per un’occupazione durata cinquant’anni.
Dopo la fine del conflitto mondiale, con i confini disegnati a Jalta dai vincitori, molti furono i russi che andarono a vivere nella nuova repubblica sovietica, anche a causa della politica staliniana di russificazione della regione baltica. I nuovi arrivati e i lettoni erano però uguali davanti alla legge, cittadini sovietici, e in fondo nulla a parte la lingua madre distingueva loro e, soprattutto, i loro figli nati lì, che frequentavano le stesse scuole e università e prestavano il servizio di leva nello stesso esercito. Questo fino al 1991. Con l’indipendenza dall’Urss il problema si materializzò d’un colpo sotto forma di leggi draconiane sulla naturalizzazione, insormontabili ostacoli burocratici e, appunto, un passaporto con la copertina viola. La corsa a costruire un nuovo Paese da zero pose altre priorità - l’economia, le infrastrutture, l’adesione alle organizzazioni internazionali - e la questione delle minoranze scivolò in fondo all’agenda dei governi. Una legge del 1995 ha infine confinato gli ex cittadini sovietici non lettoni nel limbo della «non cittadinanza», che dura ancora oggi.
«Nel 1991, durante la lotta per l’indipendenza, il Fronte nazionale lettone promise la cittadinanza a tutti quelli che avrebbero appoggiato l’indipendenza del Paese - dice Aleksandr -. Siamo stati traditi, anche quelli di noi che si sono battuti contro l’Urss. Siamo stati abbandonati». Aleksandr è tra i compilatori di una proposta di legge supportata dal partito di sinistra Zapcˇel per il riconoscimento automatico della cittadinanza a tutti i non cittadini, ma nella vita fa la guida turistica. «Non possiamo fare un sacco di lavori, moltissime carriere pubbliche ci sono precluse: giudice, avvocato, poliziotto. Non posso neanche lavorare come guardia giurata». Sono circa una trentina i lavori negati ai nepilson, secondo il Comitato lettone per i diritti umani Lck, ma sono ben ottanta le differenze tra cittadini e non cittadini se si contano tutte le limitazioni dei diritti, dal diritto di voto all’impossibilità di acquistare alcune proprietà immobiliari. È una lunga lista di discriminazioni.
UNA QUESTIONE DI NOMIJuri Petropavlovski è un nepilson. È nato a Riga 57 anni fa, la sua famiglia è originaria della Siberia ma è trapiantata in Lettonia da due generazioni. «Qualunque cittadino dell’Ue, dopo sei mesi di residenza in Lettonia può comprare un immobile, io no». Si arriva a risvolti grotteschi: Louie Fontaine, un cantante danese, e perciò cittadino dell’Ue, è proprietario di un hotel a Liepaja, a 200 chilometri da Riga, ed è stato eletto nel consiglio comunale di quella città. «Io non potrei neanche candidarmi, né a Liepaja né altrove».
La questione burocratica affonda in quella etnica, sovrapponendosi in parte a essa, ma creando anche molta confusione. «Tutto si basa sulla distinzione tra persone di etnia lettone, che vengono chiamati lat, e di etnia russa, che sono chiamati semplicemente russi. Questo crea una grande malinteso, perché sembra che noi minoranza russofona siamo arrivati in Lettonia dalla Russia, come fossimo stranieri. Ma non è così, noi siamo nati qui, proprio come le persone di etnia lettone». Per spiegarlo meglio, Juri deve fare ricorso alla propria lingua. «In russo la distinzione è meno marcata e più chiara allo stesso tempo, perché usa parole con la stessa radice: latyš per le persone di origini lettoni, e latviets per le minoranze etniche nate e vissute qui, legate al territorio della Lettonia. Il punto è proprio questo: lat e russofoni sono entrambi lettoni».
Juri si è visto rigettare la domanda per l’acquisto della cittadinanza dopo aver preso parte alle proteste contro una riforma della scuola che avrebbe cancellato l’insegnamento del russo. «Nel mio caso, è stato stabilito che l’acquisto della cittadinanza è basato sulla “lealtà politica”. Non esiste in nessun Paese democratico che si condizionino i diritti civili di una persona alla lealtà verso una qualsiasi parte politica». Ha intentato una causa che è arrivata fino alla Corte suprema senza che venisse presa una decisione.
Lo scorso settembre la proposta di legge stilata dagli attivisti di Zapcˇel ha raccolto le firme necessarie per essere presentata in parlamento. «L’unica via per cambiare le cose è l’iniziativa popolare», dice Aleksandr Kuzmin, membro del comitato referendario: «In parlamento è troppo forte la resistenza dei partiti al governo. Dare la cittadinanza ai nepilson, che appartengono al 99% alla minoranza russofona, significherebbe creare un enorme bacino di voti a favore delle opposizioni. La destra è al governo da vent’anni, gli interessi politici dietro il problema dei non cittadini sono troppo forti».
Per la proposta di legge sono state raccolte 12mila firme, 2mila in più del minimo richiesto dalla Costituzione. Le firme sono ora al vaglio della commissione centrale elettorale che, se ne riconoscerà la validità, dovrà inviare la proposta al parlamento, il quale a sua volta voterà se trasformarla in legge o meno. «Ma noi sappiamo che non lo farà, e allora la proposta sarà automaticamente sottoposte a referendum popolare», Kuzmin ne è sicuro. Ma è qui che si verifica il paradosso più grande, perché i non cittadini, i diretti interessati all’esito del referendum, non godono dei diritti politici, non potranno cioè votare in favore della proposta di legge. Il loro futuro dipenderà ancora una volta dai cittadini lettoni.
UNA FERITA NELL’EUROPA«Nessuno vuole risolvere il problema»: Aleksandr Filei va al cuore del problema. «La Russia non ha interesse a intervenire, perché gli uomini d’affari russi non vogliono rompere i rapporti commerciali con la Lettonia. Ma anche l’Ue non ha fatto niente per aiutarci». Eppure la questione dovrebbe toccare l’Europa molto da vicino. Perché, è bene ricordarlo, i possessori di quei passaporti viola, i non cittadini della Lettonia sono non cittadini dell’Unione europea. Questo vuol dire, tra le altre cose, che i nepilson non godono pienamente della libera circolazione come tutti gli altri e per andare in alcuni Paesi hanno addirittura bisogno del visto. Ma chiaramente il problema va ben oltre il regime dei visti: l’esistenza nel territorio dell’Unione di una grossa comunità di persone private dei diritti civili più basilari è una ferita profonda al cuore dell’Europa e delle sue istituzioni.
Ottenere la cittadinanza non è impossibile. Chi presenta la domanda di naturalizzazione deve poter dimostrare di risiedere in Lettonia da prima dell’indipendenza e di non possedere la cittadinanza di nessun altro Paese, ma soprattutto deve superare un esame di lingua lettone. Sono sempre di meno quelli che riescono a completare la trafila: «Solo duemila nepilson hanno ottenuto il passaporto lettone lo scorso anno. Il test di lingua è diventato sempre più difficile, basta vedere quanti non riescono a superarlo. E parliamo di gente che è nata qui - continua Filei -. Nessuno parla di questo aspetto. Dovrebbe essere un esame per la verifica della conoscenza della lingua lavorativa e invece è pieno di domande sulla Costituzione lettone. Addirittura adesso se fai alcuni errori nel test scritto rischi di perdere il lavoro, quindi molti non vogliono neanche provarci».
DUE LINGUE E UN SOLO PAESELa questione della lingua si ripercuote direttamente sui rapporti tra le due comunità e sulla loro integrazione e rischia di minare la coesione sociale del Paese. Secondo Kuzmin questo è un falso problema: «Ce n’è semmai uno che riguarda la disoccupazione, che tra i russofoni è più alta rispetto alla media nazionale per le maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro. E poi c’è molta sfiducia nel sistema politico, ma non parlerei di problemi di integrazione». Aleksandr Filei la pensa in maniera leggermente diversa. «Ho tanti amici latyš, ma con loro è meglio lasciar stare gli argomenti politici», dice prima di lasciarsi andare a un accesso di nostal’gja inusuale per i suoi 24 anni: «Nei tempi sovietici non si parlava neanche di integrazione, nessuno badava alla nazionalità di provenienza dei cittadini, tutti vivevano in amicizia. Il rispetto delle minoranze era una cosa scontata in Urss, ma ora il governo lettone vuole scardinare un società che ha funzionato su un equilibrio multietnico per molti decenni. Il risultato è una dis-integrazione, ci sono due comunità ognuna con i propri media, la propria letteratura, la propria musica e i propri mezzi d’informazione. Probabilmente il loro scopo è dividere per dominare, proprio come gli antichi romani».
Juri ha portato il proprio caso davanti alla Corte europea per i diritti dell’uomo, che forse metterà la parola fine. Ma a 22 anni dalla dissoluzione dell’impero sovietico la questione dei nepilson è più che mai aperta, e la strada referendaria sembra irta di ostacoli burocratici e politici. Quando anche l’ultimo non cittadino vedrà finalmente riconosciuta la cittadinanza del Paese che sente proprio, resterà l’amarezza delle persone che hanno trascorso la propria esistenza in una condizione di limbo giuridico. Come l’anziana madre di Juri: «Ha 85 anni. Dopo 45 passati in Lettonia tutto quello che ha è un passaporto con la scritta “non cittadina”. È come dire che aver vissuto e lavorato una vita intera qui non conta niente. Non è solo discriminante, fa male».
Danilo Elia