La crisi economica sta progressivamente erodendo i finanziamenti pubblici ai programmi di lotta all’Aids. L’allarme è stato lanciato nel corso della VI conferenza della International Aids Society che si è svolta a Roma dal 17 al 20 luglio. Il Fondo globale per la lotta all’Aids, tubercolosi e malaria, istituito nel 2001 dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, avrebbe bisogno, per continuare a fornire assistenza ai programmi dei Paesi in via di sviluppo, di almeno 20 miliardi nei prossimi tre anni. Finora però ne sono stati promessi solo 12.
Molti Stati che avevano promosso la nascita di questo fondo, tra i quali l’Italia, non hanno tenuto fede ai loro impegni. «Dal 2009 in poi – spiega Stella Egidi, medico di
Medici senza frontiere ed esperta di Hiv -, abbiamo assistito a una progressiva riduzione dei pagamenti. Nel 2008, Roma ha versato 250 milioni per gli anni 2007 e 2008, ma non ha ancora pagato le quote relative al 2009 e 2010 e ha già annunciato che non si assumerà alcun impegno per il triennio a venire». Gli altri Stati europei, costretti dalla crisi a tagliare i loro bilanci, si stanno comportando allo stesso modo. Questi tagli comprometteranno i progetti di assistenza e cura dei malati di Hiv-Aids nei Paesi del Sud del mondo. Programmi che sono interamente dipendenti dai contributi internazionali. «Negli ultimi dieci anni - continua Stella Egidi - grazie ai programmi pubblici sei milioni e mezzo di persone contagiate dal virus sono state sottoposte al trattamento antiretrovirale. Un ottimo risultato. L’Onu prevedeva di raggiungere i 15 milioni di pazienti sotto trattamento entro il 2015, ma se non arriveranno i finanziamenti come sarà possibile raggiungere questo obiettivo? I Paesi in via di sviluppo dovranno tirare la cinghia e dovranno rinunciare a curare i pazienti, a offrire nuove cure, a sottoporli ai test».
Questi programmi statali però non sono immuni da critiche. «I progetti varati dagli Stati grazie all’aiuto internazionale - osserva Dominique Corti, portavoce della Fondazione Corti, l’organizzazione italiana che sostiene il
Lachor Hospital di Gulu (Uganda) - hanno raggiunto risultati molto positivi. Questo è indubbio. C’è da dire che hanno anche creato molti problemi. Questi programmi infatti si sono concentrati interamente e unicamente sull’Hiv-Aids. Si è così raggiunto il paradosso che in Uganda mentre diminuivano le morti dovute a questo virus e cresceva il numero di pazienti in terapia, aumentavano le morti di bambini per polmonite». Non solo, ma questi programmi avrebbero drogato il mercato del lavoro sanitario. «Per attuare questi programmi - continua - i programmi, che avevano a disposizione grandi fondi, assumevano i migliori medici e infermieri. Venivano così sguarnite le strutture di base. Quindi si danneggiava il lavoro quotidiano di cura e prevenzione delle altre patologie diffuse in Africa. Ora, al di là dei problemi legati ai finanziamenti, si stanno ripensando le modalità di intervento per la cura e l’assistenza dei malati di Hiv-Aids, in modo da non trascurare le altre gravi malattie che fanno decine di migliaia di morti».
La crisi non sta intaccando solo gli stanziamenti pubblici, ma anche le donazioni private alle Ong. «La nostra fondazione - spiega Dominique Corti - ha donatori fidelizzati che anche in questi ultimi anni non ci hanno abbandonato, nonostante le ristrettezze. Anche perché noi abbiamo sempre cercato sostenitori consapevoli chiedendo loro un impegno duraturo. Ciò non significa che non abbiamo in alcun modo avvertito la crisi. Alcune aziende che ci hanno sostenuti per anni, oggi hanno seri problemi e fanno fatica a continuare ad aiutarci».
Anche molte famiglie tagliano i fondi. «Non sempre tagliano interamente i fondi - spiega Daniela Stirpe, operatrice del
Magis, la Ong dei gesuiti italiani -, ma, per esempio, se prima donavano 100 euro oggi magari donano solo 50 o meno. Questo è evidente un po’ in tutti i progetti, compresi quelli di carattere sanitario. Anche se, va detto, chi qualche anno fa aveva preso impegni a lunga scadenza, in genere tende a mantenerli. Chi, per esempio, aveva adottato a distanza un bambino, tende a continuare a sostenerlo. Questa tendenza non la avvertiamo solo noi, ma quasi tutte le altre Ong in Italia e, penso, anche all’estero».
«La nostra organizzazione - conclude Stella Egidi - non ha registrato un calo delle donazioni. Ma nei convegni, negli incontri sento che molti colleghi lamentano un calo di fondi. Però anche se non mancassero i fondi, le Ong da sole non possono da sole sobbarcarsi il carico della lotta all’Aids. Possono contribuire, ma non fare tutte da sole. Servono interventi pubblici ben organizzati e ben finanziati. Altrimenti il contagio non si arresterà».
Enrico Casale