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Quante vite ha il dalai lama?
21 giugno 2012
Il 14 maggio il tabloid cinese Global Times, rotocalco del Quotidiano del Popolo del Partito comunista di Pechino, all’indomani delle dichiarazioni rilasciate dal leader spirituale tibetano al giornale britannico Sunday Telegraph, secondo cui Pechino avrebbe architettato un complotto per avvelenarlo, così replicava: «La Cina non vuole uccidere il dalai lama, se lo avesse voluto fare non avrebbe aspettato tanto. E poi non trarrebbe alcun beneficio dalla sua morte, senza contare che le autorità non hanno mai ucciso i loro oppositori politici in esilio. Al contrario, se fosse nato negli Stati Uniti o in Israele, in Russia o in Turchia, non avrebbe vissuto una vita stabile».
Questo scambio avviene 14 mesi dopo un’altra celebre dichiarazione dello stesso Tenzin Gyatso. Il 10 marzo 2011, a Dharamsala, in occasione del tradizionale discorso commemorativo dell’insurrezione di Lhasa del 1959, aveva fatto uno storico annuncio: «Fin dagli anni Sessanta ho ripetutamente affermato che i tibetani hanno bisogno di un leader politico liberamente eletto a cui io possa devolvere il potere. Adesso è giunto il momento di mettere tutto questo in pratica».
Il dalai lama ha spiegato i motivi della sua scelta ricordando di essere in carica dal 1950, da quando aveva solo 15 anni. È il momento di dare vita a «un sistema di governo interamente democratico. Come XIV dalai lama del Tibet - ha detto - sono onorato di rinunciare volontariamente al potere politico implicito nell’istituzione del Ganden Phodrang iniziata nel lontano 1642 ai tempi del Grande Quinto (il V dalai lama)».
In effetti, il fatto che dal 1959 egli rivesta il ruolo di portavoce di tutto il popolo tibetano non è mai stato del tutto accettato dalle altre tradizioni buddhiste tibetane, in alcuni casi inconciliabilmente distanti.
Ma chi è il dalai lama? O meglio, qual è il suo ruolo? Questa figura è stata creata nel 1578 dal sovrano mongolo Altan Khan, che attribuì il titolo a Sonam Gyatsho, capo di una delle principali sette tibetane, la scuola Gelukpa (letteralmente, «i virtuosi»). Essa fu fondata da Tsong-kha-pa, nel XIV secolo, sulla base degli insegnamenti del maestro buddhista bengalese Atisha, vissuto tre secoli prima.
Il termine «dalai» è la traduzione in lingua mongola del nome proprio di persona tibetano Gyatsho, che significa «oceano». Mentre la parola «lama» è la traduzione in tibetano del termine sanscrito «guru» (maestro), coniato nell’VIII secolo quando il buddhismo giunse in Tibet dall’India.

LA PROTEZIONE DEI KHAN
Fin dal XIII secolo il lama alla guida del Tibet era considerato una sorta di consigliere spirituale dell’imperatore della Cina di dinastia mongola, mentre questi fungeva da patrono e protettore del lama e quindi, per estensione, del Tibet stesso. I lama Gelukpa diedero ai mongoli un sofisticato sistema religioso, composto non solo di credenze e culti, ma anche di riti sciamanici e tecniche mediche. La gratitudine dei Khan si espresse così in protezione politica e militare.
In effetti, con l’investitura onorifica data a Sonam Gyatsho nel 1578, non solo si è rafforzata una relazione istituzionale di vassallaggio politico-religioso già attiva da molto tempo, ma si è data una stabilità politica al Tibet, fino ad allora lacerato da guerre intestine.
In questo contesto va anche letto l’istituto tibetano della reincarnazione, il quale, oltre a essere una modalità per vivere il culto degli antenati, ha un eminente scopo politico ai fini della successione: evita la trasmissione per eredità come avviene nella monarchia o per elezione, come avviene, ad esempio, per il papa cattolico. Uno dei vantaggi è che, di generazione in generazione, la ricomparsa della stessa personalità svuota di significato l’uomo in favore del carisma della sua carica.
Ngawang Lozang Gyatso (1617-1682) fu il quinto dalai lama, riuscì a sconfiggere i nemici con l’aiuto dell’esercito mongolo e a diventare sovrano dell’intero Paese, costituendo un’organizzazione centralizzata che prende il nome di Ganden Phodrang, il cui simbolo fu il Palazzo del Potala, a Lhasa. Con un’abile miscela di misure repressive e concessioni di potere, arrivò anche ad autoproclamarsi emanazione di Avalokiteśvara. Questi è uno dei principali bodhisattva, ovvero esseri che, giunti sulla soglia della loro liberazione definitiva (nirvana), vi rinunciano per ritornare ad aiutare gli altri esseri nel loro sforzo verso la salvezza. Dunque, ogni dalai lama risulta essere emanazione di Avalokiteśvara e l’incarnazione del proprio predecessore.
L’autorevolezza del Grande Quinto e dei Geluk fu confermata dall’imperatore cinese della dinastia Qing (1644-1911), in occasione di un soggiorno del dalai lama a Pechino tra il 1651 e il 1653. Questo garantì il potere dei Geluk sul Paese fino al XX secolo. Questa scuola riuscì a usare l’influenza cinese per tenere sotto controllo i propri avversari politici e, allo stesso tempo, a impedire ai cinesi di interferire eccessivamente negli affari interni tibetani. Ma nel 1951 l’equilibrio saltò e la Cina cominciò a impossessarsi di quello che ritiene, da oltre nove secoli, una sua provincia.

DA HARVARD UN NUOVO LEADER
Nel citato discorso del marzo 2011, Tenzin Gyatso ha aggiunto che il Ganden Phodrang continuerà adesso solo come istituzione religiosa. «Il mio ruolo tornerà così a essere quello dei primi quattro dalai lama, un ruolo puramente spirituale».
Così, dal 20 marzo 2011, un accademico di Harvard, Lobsang Sangay, 43 anni, è il nuovo Kalon Tripa, ovvero il premier tibetano della diaspora.
Quanto alle conseguenze che ciò potrà avere nel rapporto con la Cina, molti analisti ritengono che la nuova articolazione potrebbe portare vantaggi politici e sociali vitali per la comunità tibetana in esilio. Toglierebbe alla Cina ogni possibilità di governo sulla diaspora, anche se Pechino sta aspettando con ansia il momento di intronare un proprio dalai lama. Inoltre, il nuovo sistema offre ai tibetani una leadership politica istituzionalizzata, che ha molte più possibilità d’azione e uno status migliore nel contesto internazionale. Oltretutto, salvaguarda il sistema politico tibetano dai pericoli fatali rappresentati da inerzia e confusione, generati dai circa vent’anni di vuoto di leadership che seguono la morte di un dalai lama. Infatti, i poteri esecutivi, nel sistema tradizionale, passano al successore soltanto quando questi raggiunge l’età adulta.
Davide Magni SJ
© FCSF – Popoli
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