Mentre l’attenzione del mondo è rivolta all’Africa del nord, in Somalia
sono scoppiate nuove sanguinose battaglie. L’esercito del governo somalo
di transizione ha attaccato a Mogadiscio le roccaforti degli shabàb,
considerati la filiale somala di al Qaeda. Ne abbiamo parlato con
Benvenuto Issaq, esponente di spicco della diaspora somala in Italia.
Il governo somalo di transizione quanta parte della Somalia controlla? Chi lo sostiene a livello internazionale?Non esiste in Somalia alcuna organizzazione che possa chiamarsi «governo somalo» né alcuna altra istituzione funzionante. Quello attualmente chiamato pomposamente «governo di transizione» controlla alcuni distretti di Mogadiscio: Hàmar Weyne, Shingàni, Hamar Jab-jab e parte di Medina, comprendente l’aeroporto internazionale. Oltre ai distretti di Mogadiscio, forze del governo transitorio sono presenti in parte della regione di Ghedo e di Hiràn. Ben poca cosa. Sul terreno è appoggiato da Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia, composta da 8.000 soldati ugandesi e burundesi (mai tutti presenti in Somalia) ed è sostenuto inoltre da milizie dell’organizzazione islamista Ahlul-sunna wa al Jamà’a. A livello internazionale è sostenuto da Onu, Stati Uniti, Unione europea, Lega araba e Unione africana. I primi tre forniscono anche un sostegno finanziario. Si tratta in ogni modo, di un sostegno a dir poco misero e che non ha per ciò alcun significativo impatto nella situazione in cui versa l’agonizzante governo transitorio.
I fondamentalisti islamici come sono riusciti a prendere il controllo di larga parte del Paese?L’Unione delle Corti islamiche, da cui si sono formati gli shabàb, anni addietro avevano il sostegno popolare nelle zone dove erano presenti. Questo per due motivi: i capi dell’Unione delle Corti islamiche, e quindi degli shabàb, erano gente appartenente a quelle zone, appartenevano cioè al raggruppamento clanico hawiye; inoltre combattevano contro il governo transitorio capeggiato dall’ex colonnello Abdullahi Yusuf Ahmed, appartenente al gruppo clanico daròd, atavico nemico degli hawiye. Combattevano, insieme al popolo anche contro il potente contingente militare etiopico, chiamato in Somalia dal presidente provvisorio Abdullahi Yùsuf. L’Etiopia è considerata dai somali il «nemico storico». La guerra che si combatteva allora aveva, da un lato, un risvolto clanico e, dall’altro, politico-patriottico. Ma certamente non aveva un risvolto religioso.
Le cose sono cambiate in seguito. Il governo etiopico ha perso ogni interesse nei riguardi di Yusuf, e lo ha costretto a dimettersi dalla carica di capo di Stato provvisorio. Dopo due anni di continui, intensi combattimenti le forze etiopiche si sono ritirate dalla Somalia, dopo avere provocato la distruzione di gran parte del Paese e una disastrosa crisi umanitaria.
Nel corso della guerra popolare, contro il governo transitorio e le forze etiopiche sue alleate, un grande numero di deputati, con il presidente del parlamento e alcuni ministri hanno rassegnato le dimissioni e si sono stabiliti ad Asmara (Eritrea). Lì sono stati raggiunti dai capi delle componenti dell’Unione delle Corti Islamiche (Hizbul-islàm, Ahlul sunna wal Jamà’a e Al-shabàb) e, insieme a quest’ultimi, hanno formato il Comitato per la liberazione della Somalia. La guerra civile ha assunto così un altro nuovo aspetto: quella di una guerra per interposta persona tra Eritrea ed Etiopia. L’Eritrea sosteneva il Comitato di liberazione e l’Etiopia sosteneva il governo transitorio.
Caduto il governo o, meglio, il regime di Abdullahi Yusuf, la comunità internazionale tramite alcune organizzazioni ha organizzato un’ennesima conferenza di riconciliazione nazionale a Gibuti invitando tutte le parti somale in conflitto e la società civile. Ciò allo scopo di trovare un accordo per ricomporre e rafforzare le agonizzanti istituzioni. L’invito è stato accettato da tutti gli ex parlamentari e da alcune componenti dell’Unione delle Corti islamiche (guidate da Sheikh Sharìf) che si sono presentati compatti alla conferenza. Non sono intervenuti invece i movimenti Hizbul Islàmi e al-Shabàb. Dall’accordo, è scaturito il raddoppio dei membri del parlamento (550 membri), un governo transitorio guidato dal primo ministro Omar Abdirashìd A. Sharmarke e un capo provvisorio dello Stato nella persona di Sheikh Sharìf.
I fondamentalisti come amministrano il potere nei territori da loro controllati?Terminata la guerra di liberazione con l’uscita delle forze etiopiche dalla parte di Somalia da loro occupata, gli shabàb hanno trovato il terreno sgombro da ogni ostacolo e in breve tempo hanno occupato la maggior parte delle regioni poste a Sud del Puntland. Oggi gli shabàb controllano la maggior parte della regione Benàdir (Mogadiscio); le regioni del Medio e del Basso Shebèli, le regioni del Medio e del Basso Giuba, le regioni di Bay e di Bakòl. Controllano anche, seppure contrastate dalle forze del governo provvisorio e di Ahlul-Sunna wal jamà’a, le regioni di Hiràn e di Ghedo.
Dopo aver allargato immensamente l’area sotto il loro controllo, ed essersi rafforzati militarmente, gli shabàb hanno perpetrato ogni sorta di nefandezze e di abusi. Hanno proceduto a fustigazioni, mutilazioni di arti (mano destra e gamba sinistra) ai ladruncoli, demolizione di moschee storiche, profanazione di tombe di santi islamici (già meta di pellegrinaggi) e distruzione o dispersione delle loro ossa; separazione in ogni settore della vita quotidiana tra uomini e donne, divieto di cantare, proibizione del gioco del calcio, divieto di guardare filmati, obbligo per le donne di coprirsi dalla testa ai piedi, pagamento di pedaggi per i mezzi di trasporto, esecuzioni capitali per sospetto di spionaggio, distruzione delle derrate alimentari donate dalle organizzazioni umanitarie per sostenere gli sfollati dalla guerra. La vita nelle aree da loro controllate è divenuta quasi impossibile.
La popolazione come considera i fondamentalisti?Oggi gli shabàb sono odiati profondamente, detestati dalla popolazione delle zone da loro controllate. Una riprova di questo sentimento è l’appoggio diffuso in Somalia e all’estero all’offensiva che il governo di transizione e i suoi alleati stanno conducendo nelle regioni di Benàdir (Mogadiscio) Ghedo e Hiràn. Gli estremisti sono sostenuti con armi e munizioni dall’Eritrea e finanziariamente, pare, dai servizi segreti e da organizzazioni di alcuni paesi arabi (Arabia Saudita e Kuwait). Le persone che preparano gli attentati kamikaze vengono dal Pakistan.
Quale successo può avere l’attuale offensiva militare in Somalia?L’offensiva militare che attualmente il governo transitorio sta conducendo a Mogadiscio, nel Ghedo e nello Hiràn, appoggiata, a parole, da Onu, Usa, Unione europea e Unione africana, è un fuoco di paglia, destinato a spegnersi presto. Un successo tangibile potrebbe essere ottenuto solo se il contingente Amisom fosse portato da 8 a 20mila sempre presenti in Somalia e che il contingente fosse dotato anche di elicotteri oltre che di blindati. Bisognerebbe anche che fossero congelati i fondi degli shabàb. E magari anche armando la popolazione dei territori sotto il loro controllo.
Qual è la situazione attuale della popolazione somala?La popolazione somale sta attualmente attraversando una prova come pochissimi popoli hanno attraversato. È in corso un genocidio strisciante in cui ogni giorno la gente muore di fame, sete, malattie di ogni genere, disagi, stenti, ma anche nei combattimenti. Tutto questo sotto gli occhi distratti della comunità internazionale. Oggi la Somalia è un Paese abbandonato da Dio e dagli uomini, senza speranza, che non interessa ad alcuno non avendo risorse e materie prime. Molti Paesi, specie quelli industrializzati e quelli confinanti, sognano che l’attuale situazione di anarchia duri in eterno. Che la Somalia rimanga per sempre un Paese allo sbando per pescare di frodo nei suoi tremila chilometri di coste e per utilizzare il suo territorio come un’immensa discarica per seppellirvi scorie radioattive e altro.
La situazione ormai è prossima ad esplodere. La Somalia, con un territorio grande circa due volte l’Italia posta tra l’Africa e i Paesi del golfo arabico, da oltre vent’anni abbandonata a se stessa potrebbe tra breve tempo esplodere, cadere sotto il controllo di organizzazioni estremiste o malavitose con conseguenze al momento impossibili immaginare.
Enrico Casale