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Tutti gli (ex) amici africani di Gheddafi
9 settembre 2011
«Gheddafi è fuggito in Niger». «No, si rifugerà in Burkina Faso». «Andrà in Sudafrica o in Zimbabwe». In queste ultime settimane si sono rincorse le voci di un esilio in un Paese africano della Guida libica. Muammar Gheddafi ha sempre avuto un rapporto speciale con l’Africa subsahariana. Un rapporto costruito sulla base di un’ideologia panafricana e su concreti interessi economici (finanziati con gli ingenti proventi petroliferi). Un’«attrazione» ricambiata dai leader dei Paesi subsahariani a volte in modo convinto, altre volte tollerandolo per convenienza.

«Riassumere la politica estera di Gheddafi non è semplice - spiega Francesco Cresti, professore di Storia dell’Africa all’Università di Catania -, anche perché il leader libico non si è mai mosso in modo lineare. Se però dobbiamo fare una sintesi, possiamo dire che fino agli anni Novanta si è mosso sulla spinta del panarabismo, cercando di sostenere tutti i leader e i movimenti islamici in Africa. Successivamente, quando gli stessi Paesi islamici lo hanno sconfessato, ha varato una politica panafricana, sostenuta anche dai proventi del petrolio, che lo ha portato al vertice dell’Unione africana».

In questi 42 anni, Muammar Gheddafi ha stretto relazioni solide con leader un po’ in tutta l’Africa. Pensiamo a Idi Amin, il feroce dittatore ugandese da lui finanziato, ma anche gli ufficiali del Derg, il movimento che ha rovesciato il negus etiope Haile Selassie.
«Il rapporto che ha fatto più scandalo e ha colpito i commentatori è stato quello con Nelson Mandela, leader dell’Anc e primo presidente nero del Sudafrica - osserva Lia Quartapelle, ricercatrice dell’Ispi -. Nel 1997, quando la Libia era ancora considerata uno “Stato canaglia” e veniva tenuta lontano dal consesso delle nazioni civili, Mandela andò a Tripoli e si fece fotografare insieme a Gheddafi davanti alle rovine del palazzo bombardato dagli aerei statunitensi nel 1986. Non solo, ma al suo ritorno in patria, Madiba insignì Gheddafi della massima onorificenza della repubblica sudafricana. Lo stesso fece Gheddafi in Libia. Questo rapporto speciale affonda le sue radici nel sostegno economico che la Libia ha sempre offerto all’Anc durante la lotta contro il regime dell’apartheid. L’Anc, d’altra parte, aveva allora rapporti con leader e movimenti politici che oggi consideriamo imbarazzanti, ma che sono stati molto vicino all’organizzazione di Mandela durante gli anni della lotta contro i governi bianchi di Pretoria».

Gheddafi ha un buon rapporto anche con Robert Mugabe, il dittatore zimbabwiano. Questa relazione si è cementata più di recente con la crisi economica zimbabwiana. Il leader libico ha effettuato numerosi investimenti nel Paese dell’Africa australe dei quali, però, non si conoscono né la natura né l’ammontare. Si parla di interessi nel settore minerario con partecipazioni in alcune società acquisite poco prima dell’avvento ad Harare del governo di unità nazionale. Si dice poi che Gheddafi abbia una tenuta agricola a pochi chilometri da Harare, probabilmente una di quelle requisite ai coltivatori bianchi. All’inizio di gennaio di quest’anno Saif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi, si sia recato in Zimbabwe per curare alcuni affari di famiglia.

«Tra i Paesi africani - continua Lia Quartapelle -, la posizione più curiosa mi sembra sia stata quella del Senegal. Negli anni scorsi Gheddafi aveva stretto una forte amicizia con il presidente senegalese Abdoulaye Wade. Tanto che nel 2005 Gheddafi si recò a Dakar e annunciò la costruzione nella capitale senegalese della “Gheddafi Tower”, che nelle sue intenzioni, sarebbe dovuto diventare il grattacielo più alto d’Africa. Nonostante ciò, Wade è stato il primo capo di Stato del mondo a recarsi in visita a Bengasi il 9 giugno 2011 e il primo leader africano a riconoscere il Comitato nazionale di transizione di Bengasi. In questo cambio di posizione, probabilmente, di posizione hanno giocato molto le pressioni della diplomazia francese».

Anche con Idriss Deby, il presidente del Ciad, i rapporti sono particolarmente delicati. Negli anni Ottanta e Novanta, la Libia è stata un fattore di destabilizzazione in Ciad. Le relazioni tra i due leader sono state riallacciate solo quando Gheddafi ha iniziato a sostenere i ribelli in Darfur a loro volta molti vicini a N’Djamena. Ma sono di nuovo state messe in discussione  Ciò ha portato anche a una presa di posizione netta del Sudan a favore dei ribelli di Bengasi. Karthoum è stata tra i primi a riconoscerli e a sostenerli economicamente.

Ma un Gheddafi in fuga dalla Libia potrebbe trovare esilio nell’Africa subsahariana? «Molti analisti - continua Quartapelle - sostengono che è più probabile che vada in esilio in Venezuela. Penso che Gheddafi non andrà in esilio in uno dei Paesi confinanti con la Libia. Per i governi che eventualmente lo accogliessero sarebbe un forte elemento di instabilità. Ricordiamoci che il leader libico negli anni ha sempre sostenuto le rivolte dei tuareg in Mali, Niger e Ciad. Perché quindi un governo dovrebbe dare ospitalità a una persona che ha sempre lavorato per la destabilizzazione? Sudafrica e Zimbabwe ospitano già ex dittatori e leader politici africani in esilio. Pensiamo a Menghistu Hailè Mariam, dittatore etiope, da anni residente ad Harare. O a Marc Ravalomanana, ex uomo forte malgascio, che vive in Sudafrica. Credo che Gheddafi però non abbia interesse ad andare in Zimbabwe perché Mugabe è anziano e il suo regime è destinato a cadere nel breve o nel medio periodo. Allo stesso tempo la leadership sudafricana, dopo aver tentato una mediazione (fallita) in Libia, non so se sia più interessata a esporsi a favore del leader libico».

Molti commentatori occidentali hanno giudicato negativamente la posizione dell’Unione africana nella crisi libica, sostenendo che l’organizzazione sia stata troppo morbida nei confronti di Tripoli perché i finanziamenti della Libia coprono 1/6 delle spese dell’Ua. «La politica panafricana libica - osserva Francesco Cresti - è stata certamente favorita dalle elargizioni di Gheddafi ai Paesi dell’Africa subsahariana. Su questo non c’è dubbio. Ma i finanziamenti hanno accompagnato anche una politica di apertura verso l’Africa che gli stessi politici subsahariani hanno voluto premiare ponendo al vertice dell’Unione africana proprio Gheddafi che ne è stato presidente nel biennio 2009-2010».

Ma non tutti sono concordi con la tesi che nelle posizioni dell’Ua su Gheddafi abbia contato solo il potere economico libico. «Questa spiegazione è molto riduttiva conclude Quartapelle -. Chi conosce un po’ l’Africa sa che l’Ua ha sempre cercato soluzioni che garantissero l’integrità territoriale dei singoli Stati. Dimenticare questo e dimenticare che per un lungo periodo si pensava che la conclusione del conflitto libico fosse la divisione del Paese in due o tre nuove entità statali, è ingeneroso nei confronti dell’organizzazione che ha sede ad Addis Abeba. L’Ua in realtà ha cercato di intervenire per evitare una balcanizzazione o una somalizzazione del conflitto libico. Detto questo, va riconosciuto all’Ua, sempre tacciata di non avere alcuna iniziativa, di avere tentato una mediazione diversa da quella che è stata portata avanti a livello internazionale. Sostanzialmente si è cercato di risolvere la crisi attraverso un negoziato che portasse a una ripartizione del potere attraverso forme istituzionali condivise. La Libia si è liberata da un dittatore, ma c’è una parte del Paese che non accetta il nuovo potere. Il fatto che il Cnt non sia ancora riuscito a conquistare tutto il Paese e che ci siano ancora sacche di resistenza di fedelissimi di Gheddafi dimostra proprio che i ribelli di Bengasi non sono recepiti da tutto il Paese come un movimento di liberazione nazionale, ma come un movimento con istanze di carattere partigiano».
Enrico Casale


Nella foto: Il dittatore ugandese Idi Amin Dada e Muammar Gheddafi negli anni Settanta.



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