Tra i preparativi per il menù del Natale e la ricerca degli ultimi regali, il pensiero fa capolino: “E se avessero ragione i Maya? Se il mondo finisse il 21 dicembre”? Prima di de-rubricare la “profezia dei Maya”come una delle varianti della pazzia collettiva, proviamo a renderci conto che questa sta producendo comportamenti collettivi, opinioni e dichiarazioni di personaggi istituzionali. Conviene, allora ragionarci sopra un poco. Stando alla “profezia”, il prossimo 21 dicembre si concluderebbe un ciclo iniziato più di tremila anni prima di Cristo. E questo segnerebbe appunto la fine del mondo o, nelle versioni più ottimiste, un periodo di profonde trasformazioni. Di recente è apparsa su Repubblica (11 dicembre) un'intervista al filosofo francese M. Foessel, il quale (a riprova che non esiste pensiero così poco significativo da non poter suggerire riflessioni interessanti) ha dedicato alla questione un volume dal titolo Après la fin du monde (il cui sottotitolo è: Critica della ragione apocalittica). Secondo il suo parere, dunque, il fatto che si stia dando credito a questa “profezia” è segnale, non tanto della sua verità (il che appare ovvio) quanto di un sentimento molto diffuso nel mondo occidentale ed europeo in specifico: il sentimento della fine del “nostro” mondo, vale a dire del nostro modello di civiltà. Un’idea sostenuta tempo fa anche dal filosofo portoghese Eduardo Lourenço, per il quale l'Europa, persa la sua egemonia culturale, esprime una “crisi” di pensiero e fiducia dalla quale non sa uscire. La credenza nella profezia maya, argomenta Foessel, è giustificata anche dal desiderio inconscio di socializzare la paura e l'angoscia che la realtà della morte suscita nel pensiero occidentale. Una sorta di riflessione collettiva sul destino comune e una specie di implicita richiesta di ricostruzione della comunità. E infine, sarebbe giustificata dalla strana passività del pensiero che segue alla fine delle ideologie e delle utopie: se non c'è più la speranza di cambiare il mondo, allora non c'è più neppure il mondo e non c'è più futuro. Vorrei aggiungere qualche riflessione di tipo antropologico. Sappiamo bene che i Maya (come gli Aztechi, molto tempo dopo) prestavano grande attenzione ai segnali e praticavano attentamente la divinazione, vale a dire la ricerca di indizi per il comportamento. Sappiamo che consideravano (gli Aztechi) pericolosi gli ultimi giorni dell'anno e che richiedevano comportamenti adeguati. In questo senso la “profezia maya” starebbe dentro uno schema che tutte le culture, da sempre, conoscono: quello del pensiero magico che, sentendosi in sintonia empatica col cosmo, cerca in questo i segni del proprio destino. Pensiero ben documentato in tutta la letteratura etnografica. Ma la visione apocalittica, che prevede una conclusione drammatica del mondo, non è sconosciuta al pensiero occidentale: questi però, l'ha inserita in uno schema mistico che pensa non alla catastrofe finale, bensì alla rigenerazione (l'età dello spirito del millenarista Gioacchino da Fiore, ad esempio). Inoltre, come pensiero profeticosalvifico, la categoria della apocalisse è ben conosciuta da varie culture (quelle africane, quelle oceaniche, quelle del sud America) le quali, offese dal colonialismo e dalla visione occidentale loro imposta, pensano ad un momento nel quale si ristabilirà l'ordine (magari mediante una palingenesi o per il tramite di un profeta nativo). Il che vuol dire: chi è stato umiliato troverà riscatto. Così ragionavano, ad esempio, i papuasici seguaci dei “culti del cargo” per i quali le navi e gli aerei degli occidentali sarebbero giunti un giorno portando loro tutti i beni dei bianchi e restaurando la dignità dei nativi. Propongo una riflessione ulteriore. La categoria della morte e della rinascita sta dentro ogni calendario liturgico e rituale. I carnevali dell'arco alpino (alcuni dei quali si celebrano proprio in questo periodo di Avvento) prevedono l'uso di travestimenti animali e arborei e realizzano rituali mediante i quali si intende “risvegliare” la natura perchè, dopo il torpore invernale, torni a dare frutti. La simbologia del periodo natalizio, che si sviluppa attorno al solstizio invernale, e dunque, nel momento più buio dell'anno, dà grande risalto alla luce, le luci dell'albero e delle decorazioni come anticipazioni della stagione della luce, la primavera che si attende. E i doni ai bambini, vale a dire alla parte più fragile della comunità umana, sono portati dai morti (come in alcune tradizioni del sud dell'Italia) o da figure assimilabili agli antenati, come Babbo Natale o la Befana o la stessa Santa Lucia, la santa della luce. In questo senso, chi ripropone la strampalata profezia maya, in fondo enfatizza e rende “contemporaneo” un elemento presente in tutte le tradizioni culturali: quello del ciclico confrontarsi e alternarsi di morte e di vita, del passaggio dalla vita alla morte, alla rinascita. Un elemento ben chiaro nei riti di passaggio del ciclo dell'anno, ma anche nei riti che segnalano le tappe della vita individuale. Riemergono, perciò, con questa profezia, categorie mentali arcaiche, come quella di destino, comportamenti magici come l'andare alla ricerca di segni che ci indicano il futuro. Categorie con le quali si cerca di rendere comprensibile un mondo, il nostro, del quale si sono perdute le coordinate. Di nuovo c'è, invece, lo sfondo nichilista sul quale questa profezia (o le versioni che stanno inquietando i sogni degli occidentali) viene pensata. Sfondo che prevede un solo elemento, la catastrofe e dimentica l'altro aspetto del pensiero dialettico di tutte le tradizioni: la rinascita, il riaffermarsi della vita. Quella della natura e quella dell'uomo. Forse si dovrebbe rileggere (ma questa volta con più intelligenza) tutta la saggezza delle culture (anche della nostra cultura popolare) che quando parlano di morte intendono parlare della vita, e se pensano alla “fine” pensano a una rigenerazione. Come la primavera che verrà dopo il buio, annunciata dai fuochi e dalle luci dell'inverno. .
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