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«Il Papa: il "pastore grande", non un monarca»
05/04/2013

Gesuita, biblista, profondo conoscitore di Israele, amico del cardinale Carlo Maria Martini negli anni di Gerusalemme, oggi professore emerito alla Gregoriana di Roma: sono molti i motivi che fanno di Francesco Rossi De Gasperis un osservatore autorevole delle vicende ecclesiali. Con il consenso dell'autore pubblichiamo questa lettera in cui commenta i due eventi straordinari delle ultime settimane: le dimissioni di Benedetto XVI e l'elezione di Francesco, primo Papa gesuita nella storia della Chiesa.


Soli pochi minuti fa, l’elicottero del papa Benedetto XVI si è elevato dal Vaticano, proprio qui vicino alla nostra casa, diretto a Castel Gandolfo.

Io ho amato e amo l’uomo Joseph Ratzinger, che la delicatezza del suo animo ha reso tanto esitante, riservato, indugiante, più pronto ad andar via che a mandar via! Egli nutriva sentimenti lucidamente netti, come si legge in questo suo testo del 1969:
«Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto». (Joseph Ratzinger, 24 dicembre 1969: conclusione del ciclo di lezioni radiofoniche presso la Hessian Rundfunk, ripubblicati nel volume Faith and the Future, edito dalla Ignatius Press).

Per un uomo che nutre questa speranza, la vita in Vaticano ha dovuto essere una penitenza straziante. Sia la sua una profezia illuminata o no, egli ha offerto alla Chiesa un contributo decisivo a renderla universalmente visibile e sensibile – come il rumore delle eliche del suo elicottero – dando le sue dimissioni da vescovo di Roma, cioè da papa. Il suo successore sembra muoversi in sintonia perfetta con la discrezione con cui utilizza il vocabolario «papale», affidandosi più volentieri a quello neotestamentario «episcopale», di vescovo di Roma, cioè «vescovo della Chiesa di Dio pellegrina in Roma», come si legge nella Prima lettera di Clemente alla Chiesa di Dio pellegrina in Corinto.

Il «papa» non è, infatti, «il capo supremo di una Chiesa universale» oltre a essere il vescovo della Chiesa in Roma, ma la natura universalmente primaziale del ministero petrino gli deriva proprio dal suo essere il vescovo della Chiesa in cui hanno brillato le testimonianze del martirio di Pietro e di Paolo, la Chiesa «che presiede nel luogo della regione dei romani, degna di Dio, degna di onore, degna di beatitudine, degna di lode, bene ordinata, casta e che presiede alla carità, avendo la legge di Cristo e il nome del Padre», secondo quanto dice Ignazio di Antiochia. Essa, secondo Ireneo di Lione, «è la Chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti e stabilita a Roma dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo». Pertanto a essa spetta un ruolo preminente (una potentior principalitas), perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli.
Il «papato», come se ne parla oggi, è un dato sociologico e culturale, da cui la Chiesa romana appare appesantita nel suo secondo millennio, e specialmente dal 1870 in poi, quando, dopo il Concilio ecumenico Vaticano I, Pietro è apparso isolato dalla collegialità episcopale, come se fosse il parroco di tutte le Chiese della terra, sostituto di tutti i loro vescovi, sacralizzato come un monarca assolutamente auto-referenziale, come un sultano o un potente imperatore, molto lontano dal Pietro del vangeli e del Nuovo Testamento, che appare sempre in mezzo ai suoi fratelli, i Dodici e gli altri che sono con loro (cfr Lc 24,33; At 1,15). Joseph Ratzinger ha rettamente ricondotto il ministero di Pietro al suo significato sacramentale, di «segno sensibile, destinato a passare e non sacrale», dell’unico «Pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), il Signore Gesù Cristo risorto, l’Arcipastore (1Pt 5,4) e l’unico «Sacerdos magnus»  (Eb 4,14) alla testa del comune «sacerdozio regale» di tutti noi, “nazione santa, popolo che Dio si è acquistato per proclamare le opere ammirevoli di lui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,5.9; cf. Ap 1,6; 5,10; 20,6).

Senza alcun accordo previo, ma solamente obbedendo allo Spirito, il papa Francesco comincia a parlare con i suoi gesti e le sue parole la lingua neotestamentaria e piana del «ministero petrino», che tanto intriga i giornalisti e altri nostalgici di corti medievali e di signorie rinascimentali.

Il Signore ci doni la grazia di riprendere senza esitazioni il passo del Concilio Vaticano II, liberi dai cavilli delle dispute sulla continuità o la discontinuità con l’unico Evangelo di Gesù, interpretato dal palazzo nobiliare della Porziuncola del Poverello.

Francesco Rossi De Gasperis SJ

© FCSF – Popoli