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Bangladesh: risarcimenti fantasma per le vittime della fabbrica tessile
30 ottobre 2013

A sei mesi dal disastro del Rana Plaza (24 aprile), il palazzo di Dhaka che ospitava stabilimenti tessili e che crollando ha sepolto migliaia di operai, la situazione dei sopravvissuti e delle famiglie delle 1.129 vittime è critica. La tragedia vissuta dai lavoratori si è prolungata in mesi di disoccupazione, impoverimento e incertezza. Tra le imprese internazionali che si rifornivano negli stabilimenti crollati, solo l’anglo-irlandese Primark ha concesso alcuni mesi di paga a oltre tremila sopravvissuti, ma questo flusso di aiuti sta per finire.

Una ricerca condotta da ActionAid mostra come il governo e le aziende stiano ancora contrattando i risarcimenti. Su circa 2.300 persone intervistate, cioè la maggioranza dei sopravvissuti e dei famigliari degli scomparsi, il 94% non ha ancora ricevuto alcun risarcimento, il 92% non è tornato al lavoro, due terzi hanno subito gravi traumi fisici, come amputazioni, e circa la metà ha dovuto contrarre debiti per affrontare cure e una vita da disoccupati. Meno di 800 persone hanno ricevuto indennizzi dal governo bangladese. Nazrul è uno di questi: operaio 28enne, si trovava all’ottavo piano dell’edificio e si è rotto la colonna vertebrale durante il crollo. Racconta di avere finora ricevuto solo un aiuto economico dalle autorità governative.
Per ActionAid il comportamento delle compagnie multimilionarie è indifendibile. Inoltre molte di esse non hanno finora aderito al «Bangladesh Safety Accord», che le vincola per cinque anni a migliorare gli standard di sicurezza degli stabilimenti dove operano le aziende locali fornitrici.

Sono una quindicina le industrie di celebri marchi di abbigliamento che hanno accettato - in linea di principio - di pagare risarcimenti. La campagna internazionale Clean Clothes (Abiti puliti) è riuscita a strappare il consenso di Inditex (la proprietaria della catena Zara), El Corte Inglés, Bon Marché e Mascot. Walmart, il gigante Usa della distribuzione, rifiuta di aderire perché le produzioni in cui sarebbe coinvolto non sarebbero state autorizzate dall’azienda.

Nel rapporto dal titolo Still Waiting, che ha stilato insieme a Ilrf (International Labor Rights Forum), Abiti puliti fa il punto della situazione, indicando chi si assume le responsabilità e chi no. Tra questi ultimi, finora non hanno aderito le francesi Auchan e Carrefour, la spagnola Mango, le italiane Pellegrini, Manifattura Corona e YesZee, oltre a diverse altre tedesche, britanniche e americane.

Finalmente anche Benetton si è unita al gruppo di quelle disposte a discutere un piano di risarcimenti a lungo termine. Ma intanto i lavoratori stanno aspettando e probabilmente lo faranno fino al nuovo anno prima di vedere un soldo. Per IndutriAll, che riunisce una serie di organizzazioni sindacali a livello internazionale, la preoccupazione più immediata è di fare arrivare i fondi alle vittime.

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sta aiutando i sopravvissuti disoccupati a reinserirsi, con un programma finanziato dalla Ue che li aiuta a migliorare le proprie competenze per rientrare nel mercato del lavoro. Minu Aktar è una giovane che lavorava alla Phantom Apparels, al quarto piano del palazzo, ed è rimasta schiacciata sotto le rovine per tre giorni. Subisce ancora le conseguenze del trauma fisico. Partecipa a questo programma di aggiornamento professionale che le consente di riprendere il lavoro come sarta. Il 22 ottobre l’Oil ha lanciato insieme al governo di Dhaka anche un nuovo programma di tre anni per migliorare le condizioni di sicurezza nella fabbriche tessili.

Intanto in Bangladesh si trascinano le trattative per portare il salario minimo da 3.000 taka alle probabili 5.500 (mentre i lavoratori ne chiedono 8.000). Aumento significativo in percentuale, ma non in valore assoluto se si considera che si parte da una base di 28 euro mensili.

Francesco Pistocchini

© FCSF – Popoli