In un trentennio il buddhismo cinese ha conosciuto un rinnovamento spettacolare. Riannodando un rapporto antico con il potere politico, oggi si propone quale protagonista della nuova Cina. Come spiega un gesuita, tra i massimi esperti del tema
Delle cinque grandi religioni ufficialmente riconosciute in Cina, il buddhismo è quella che ha tratto maggiore guadagno dalle condizioni create dal governo a partire dagli anni Settanta. Lo testimoniano milioni di turisti, cinesi e stranieri, che ogni anno visitano il Paese: la maggior parte dei siti più visitati sono santuari buddhisti, costruiti o ricostruiti nell’ultimo trentennio. Quasi annientata durante la Rivoluzione culturale, la religione del Buddha Sakyamuni è rinata oggi dalle sue ceneri con una vitalità sorprendente e la volontà di riprendere il proprio posto nella società cinese contemporanea, giocando come nel passato (o forse in misura maggiore) un ruolo di primo piano nella modernizzazione del Paese.
Secondo le statistiche ufficiali, esistono attualmente in Cina più di 13mila templi buddhisti e circa 200mila tra monaci e monache, così ripartiti: oltre 3mila sono i templi e monasteri del buddhismo tibetano (o lamaismo), con 7 milioni di fedeli di varie etnie e circa 120mila monaci e monache; più di mille sono i templi e monasteri del buddhismo di lingua pali, praticato soprattutto nel Sud e nel Sud-Est dello Yunnan (1,5 milioni di fedeli e 8mila monaci); infine, ci sono oltre 9mila templi e monasteri della nazionalità han (la componente più numerosa della nazione cinese), con oltre 70mila monaci.
Un altro segno di vitalità è il fatto che diversi istituti di studi buddhisti sono stati aperti (o riaperti) allo scopo di formare una élite di monaci e monache con una profonda vita spirituale e alti livelli di istruzione. Il primo di questi è l’Istituto buddhista cinese, riaperto a Pechino nel 1980.
Tutte queste realizzazioni non sarebbero possibili senza l’aiuto e il controllo del governo. La maggioranza dei templi, dei monasteri e degli istituti che sono stati costruiti o restaurati dopo la Rivoluzione culturale (1966-1976) hanno ricevuto un sostegno finanziario dagli organismi statali e le diverse attività che vi si svolgono sono sottoposte all’approvazione delle autorità, come accade per le altre religioni del Paese. Il rinnovamento religioso del buddhismo che si osserva oggi in Cina dimostra che il governo è direttamente interessato al progresso di questa religione che, nel passato, ha avuto un ruolo decisivo nella storia cinese.
Per comprendere meglio questa interazione tra buddhismo e governo, è utile gettare uno sguardo su duemila anni di storia del buddhismo in Cina. Innanzitutto è evidente che questa religione, giunta dall’India, ha potuto mettere radici nell’Impero di mezzo solo grazie al sostegno delle autorità civili. Il maestro Dao An (312-385), traduttore e interprete stimato delle scritture buddhiste al tempo della dinastia dei Jin orientali, affermò che «senza il sostegno dei dirigenti del Paese, le questioni del Dharma non sono su un terreno solido».
È una sorta di assioma che definisce la linea di condotta adottata nel corso dei secoli dal sangha, la comunità che riunisce tutti i monaci e laici buddhisti. Dalle buone relazioni con lo Stato dipende la sorte dei templi, la loro prosperità o il loro declino.
Si legge negli Annali del tempio Guoqing (provincia del Zhejiang): «Nel corso dei secoli il tempio Guoqing ha prosperato e ha diffuso abbondantemente il Dharma grazie alla magnanimità dei principi e degli imperatori. Le guerre e il disprezzo dei potenti per il buddhismo hanno condotto al suo declino. Dalla grandezza alla decadenza, dalla decadenza alla grandezza, la tradizione buddhista si è mantenuta senza interruzione».
MAESTRI VICINI AL POTERE
Zanning, maestro buddhista del X secolo e autore delle biografie dei monaci eminenti, affermò: «Buddha affidò il Dharma ai re e ai ministri». Faceva probabilmente riferimento a due sutra, oggi ritenute apocrife, ma che ebbero lungo il corso della storia cinese un’influenza decisiva sull’atteggiamento dei principi rispetto al buddhismo: la sutra del Re umano e quella della Luce dorata. «Affidando il Dharma ai re e ai ministri» non solo Buddha affidò loro la protezione della religione, ma diede loro un’autorità che permetteva di esercitare il controllo diretto sul sangha. I sovrani autorizzano la costruzione dei monasteri e talvolta ne assicurano il finanziamento. Conferiscono al tempio il suo nome ufficiale donandogli un’iscrizione e un sigillo. Nominano i priori dei templi principali e conferiscono ad alcuni il titolo di «maestro nazionale» o «maestro imperiale». Dunque, l’esistenza stessa dei monasteri dipende dal loro benvolere e gli imperatori amano mostrarsi generosi donando strumenti liturgici, dipinti, calligrafie, poesie, oggetti preziosi, Tripitaka (testi sacri), che arricchiscono il patrimonio dei templi.
Non tutti i sovrani cinesi furono favorevoli al buddhismo: lo testimoniano le grandi persecuzioni subite in epoche diverse, come ai tempi dell’imperatore Wuzong (841-845) della dinastia dei Tang. Alcuni, invece, ebbero un’influenza particolarmente positiva. Tra questi, Liang Wudi (502-549), soprannominato «l’imperatore Bodhisattva»; Wu Zetian (684-704), che si considerava come la madre del Buddha e l’incarnazione di Maitreya; Kubilay Khan (1214-1294), come tutti i membri della dinastia mongola dei Yuan, fervente sostenitore del buddhismo (ebbe come primo ministro il lama Basiba); Zhu Yuanzhang (1368-1398), fondatore della dinastia Ming che in gioventù era stato monaco; Kangxi (1662-1722), che si considerava l’incarnazione del Buddha Amitabha; Quanlong (1736-1796), che si considerava l’incarnazione del Bodhisattva Guayin, allo stesso modo dell’imperatrice Cixi (1835-1908).
Il sostegno dei principi implicava in cambio l’impegno dei buddhisti dell’impero a promuovere prosperità, sicurezza e stabilità. Questa responsabilità fu assunta in gran parte da quei membri del sangha cui era conferito il titolo onorifico di «maestro nazionale» o «maestro imperiale». Consiglieri dei sovrani, controllavano la buona organizzazione delle comunità monastiche e, soprattutto, il loro prestigio contribuiva a rafforzare la legittimità del potere.
Così avvenne con Fo Tudeng, consigliere dell’imperatore Shile, grazie al quale il buddhismo divenne religione ufficiale; con Basiba, che nel XIII secolo operò con successo per l’unione con i tibetani; o con Bukong, uno dei monaci politicamente più potenti di tutta la storia cinese. Il costante fenomeno cinese dell’interazione tra buddhismo e potere civile e politico spiega sia il successo della religione del Buddha Sakyamuni nell’Impero di Mezzo sia l’interesse che gli accordarono principi e imperatori.
NUOVE SINTONIE
Il rinnovamento spettacolare realizzato a partire dal 1978 mostra somiglianze notevoli con il passato, nel processo di interazione tra la religione del Buddha e i dirigenti del Paese. Per quanto diverso dalle dinastie feudali, il sistema socialista della Repubblica popolare esercita sul buddhismo una funzione di sostegno e di controllo simili, mentre le comunità buddhiste sono invitate a concorrere per favorire la stabilità, l’unità e la prosperità della nazione. L’assioma del maestro Dao An vale come nel IV secolo: «senza il sostegno dei dirigenti del Paese, le questioni del Dharma non sono su un terreno solido».
Il sostegno e il controllo del governo avvengono oggi attraverso l’Associazione buddhista di Cina, che, tra gli obiettivi, annovera l’assistenza al governo nella politica religiosa, la protezione dei diritti e degli interessi legittimi degli ambienti buddhisti, l’unità dei buddhisti sul piano nazionale, l’azione a favore del benessere del popolo, l’unità della madrepatria e la pace nel mondo. Eccetto che in Tibet, questi obiettivi non sembrano trovare opposizione nel Paese e hanno favorito il rinnovamento del buddhismo nel breve arco di un trentennio. I responsabili dell’Associazione esercitano un’autorità morale e politica che li avvicina ai «maestri nazionali» di un tempo e godono di una reputazione che favorisce gli interessi del buddhismo e l’influenza della cultura tradizionale cinese nel mondo.
XI JINPING ALL’UNESCO
Il 27 marzo 2014, in un importante discorso tenuto all’Unesco a Parigi, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato la necessità di promuovere gli scambi e la mutua condivisione del sapere tra le civiltà. Il discorso (il primo pronunciato da un presidente cinese di fronte a quest’organismo dell’Onu), pone come non mai l’accento sul valore e il significato della civiltà tradizionale cinese. «Attraverso più di cinquemila anni - ha detto Xi Jinping - la civiltà cinese [...], anche se nata sul suolo della Cina, ha raggiunto la sua forma attuale grazie a scambi costanti e alla condivisione del sapere con altre civiltà [...]. Un aspetto importante di questi scambi fu l’introduzione del buddhismo originario dell’India che, dopo un periodo di sviluppo integrato al confucianesimo e al taoismo autoctoni, divenne alla fine il buddhismo con caratteristiche cinesi, con un profondo impatto su credenze religiose, filosofia, letteratura e costumi del popolo cinese. Il popolo cinese ha arricchito il buddhismo alla luce della sua cultura e lo ha aiutato a diffondersi in Giappone, Corea, nel Sud-Est asiatico e oltre».
Questa interazione del buddhismo con il popolo cinese implica, nella prospettiva del presidente, l’interazione con i dirigenti nazionali. Xi Jinping indica chiaramente un orientamento: nell’insieme delle civiltà mondiali, chiamate ad arricchirsi reciprocamente nell’armonia, la civiltà millenaria cinese si presenta come un partner ricco e potenzialmente tra i più efficaci. Una civiltà che ingloba le religioni e le filosofie tradizionali, e in particolare il buddhismo, componente essenziale della cultura cinese.
«USCIRE» VERSO IL MONDO
Con questa linea, il leader cinese esprime anche la speranza posta nella religione buddhista per favorire il ruolo internazionale della Cina sul piano culturale. L’interazione tra buddhismo e autorità cinesi si manifesterà più che nel passato nell’«uscita» della civiltà tradizionale dalle frontiere per esercitare, nel concerto delle civiltà umane, un’influenza all’altezza della storia millenaria.
Facendo eco al discorso-programma di Xi Jinping all’Unesco, gli ambienti buddhisti si impegnano a promuovere la civiltà cinese sul piano internazionale. Così si è espressa l’Associazione buddhista di Cina o il venerabile Yong Xin, abate del celebre tempio di Shaolin.
«Uscendo» dalla Cina, la cultura buddhista cinese contribuirà a estendere l’influenza culturale del Paese, mentre la crescita della Cina come potenza economica e politica favorirà la diffusione del buddhismo in molti Paesi. L’interazione tra la religione del Buddha e le autorità, dopo duemila anni, assume oggi una nuova dimensione su scala planetaria.
Christian Cochini SJ
Gesuita impegnato nel dialogo interreligioso (adatt. redaz. di un articolo apparso sulla rivista dei gesuiti cinesi e-Renlai.com)
5 RELIGIONI UFFICIALI
La Repubblica Popolare riconosce cinque organizzazioni attraverso le quali l’Amministrazione statale degli Affari religiosi regola la vita religiosa nel Paese. Queste sono l’Associazione buddhista di Cina, quella taoista, quella islamica, il Movimento patriottico delle tre autonomie (cristiani protestanti) e l’Associazione patriottica cattolica. I gruppi religiosi non registrati, come le comunità cattoliche non ufficiali rimaste fedeli al Vaticano, i seguaci del movimento Falung Gong, nonché i buddhisti tibetani fedeli al Dalai lama e i musulmani uiguri autonomisti, subiscono diverse forme di persecuzione.