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Etiopia, la diga di Damocle
31 luglio 2013
L’Etiopia, «leone africano», ha registrato negli ultimi dieci anni una crescita media del Pil del 10,7%. Secondo la Banca mondiale sarà tra i pochi Stati africani a centrare gli Obiettivi di sviluppo del millennio ed entro il 2025 diventerà un Paese a medio reddito, come previsto dal programma di sviluppo del governo. La crescita economica non si fonda sull’esportazione di materie prime, ma sugli investimenti pubblici nelle infrastrutture, sullo sviluppo della produttività agricola e del settore manifatturiero. Architrave di questa strategia è la disponibilità di energia elettrica a buon mercato.

Il governo etiope negli ultimi anni si è lanciato in un ambizioso programma di sviluppo del comparto idroelettrico, che prevede 12 miliardi di dollari di investimenti per quintuplicare la produzione di energia. Un terzo delle risorse è destinato alla Diga del grande rinascimento: una volta completata sarà il più grande impianto idroelettrico africano e produrrà meta dell’energia del Paese. Altrettanto imponente è il complesso di Gilgel Gibe (una serie di dighe sul fiume Omo), che prevede la realizzazione di cinque impianti nel Sud-Est del Paese. L’aumentata capacità energetica dovrebbe avere anche potenziali ricadute sociali a favore della popolazione, che al momento ha uno dei tassi di accesso alla corrente elettrica più bassi al mondo (13%). Tra le priorità vi è anche l’esportazione di energia, come già avviene con Gibuti. Il potenziale della Diga del grande rinascimento dovrebbe permettere di esportare fino al Sudafrica.

Tuttavia, il progetto resta controverso. Non solo per le sue dimensioni, ma anche perché sorgerà lungo il corso del Nilo Azzurro, principale affluente del Nilo, di cui porta l’85% delle acque. In molti, e in particolare i Paesi a valle, Sudan e soprattutto Egitto, temono le ripercussioni che la diga potrebbe avere sui delicati equilibri che governano il bacino del Nilo. A lungo l’Etiopia ha lamentato l’ingerenza dell’Egitto, capace di bloccare i finanziamenti internazionali per progetti di sviluppo del suo potenziale idroelettrico. Lo scenario è mutato nel 2011. A febbraio, a conclusione di un decennio di negoziazioni, è stato approvato un nuovo accordo di cooperazione tra i Paesi del bacino del Nilo che sostituisce i trattati dell’epoca coloniale che tutelavano innanzitutto l’Egitto. In questo contesto l’Etiopia, approfittando anche dell’instabilità politica egiziana, sempre a febbraio 2011 ha svelato il progetto della diga.

IDROPOLITICA
In risposta alle proteste di Egitto e Sudan è stata creata una commissione tripartita di esperti, che a maggio 2013 ha presentato un primo rapporto, interpretato tuttavia in maniera discordante, con ciascuna delle parti che si è limitata a citare i passaggi ad essa più favorevoli. Ciò non ha placato le polemiche e le richieste da parte dell’Egitto di fermare il progetto, rilanciate dopo che l’Etiopia ha deviato il corso del Nilo per facilitare i lavori di costruzione. Ma Addis Abeba non sembra aver intenzione di rallentare. Il settore idroelettrico è infatti al centro del programma ufficiale di sviluppo e lotta alla povertà attraverso cui il governo etiope cerca consenso e legittimità. La strategia, elaborata dal primo ministro Meles Zenawi, scomparso nel 2012, è stata ripresa dal suo successore, Hailemariam Desalegn.

L’Etiopia è stata abile nel creare consenso internazionale attorno ai suoi progetti, inserendoli nell’agenda globale contro il cambiamento climatico e per le energie rinnovabili. Sostiene inoltre la necessità di un uso razionale delle acque del Nilo, costruendo dighe e bacini sui suoi altopiani, piuttosto che nel deserto egiziano e sudanese, dove l’evaporazione è maggiore. Queste tesi hanno permesso di superare le obiezioni relative alle ripercussioni sociali delle dighe, così come a pratiche poco chiare in materia di appalti: i lavori della Diga del grande rinascimento, così come quelli di Gilgel Gibe, sono stati affidati all’impresa italiana Salini senza gara internazionale. Attivisti internazionali per i diritti umani denunciano i trasferimenti forzati delle popolazioni indigene, in particolare lungo la valle dell’Omo. Il governo ribatte che il disagio di poche migliaia di persone è funzionale all’interesse generale degli 80 milioni di abitanti del Paese e a quello dell’intero continente africano. Rinnovando una consolidata tradizione politica, la gestione autoritaria del potere e la retorica nazionalista alimentano un consenso apparentemente unanime attorno al nuovo progetto di rafforzamento dello Stato centrale a scapito delle periferie.
Emanuele Fantini




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