Belle parole, anzi parole nuove, pochi fatti. Al netto della semplificazione nascosta in ogni slogan, si potrebbe sintetizzare così l’azione del governo Monti in materia di immigrazione. Ovvero un fenomeno ormai centrale nell’agenda politica, che ha riflessi sull’economia e il mondo del lavoro, sulla dimensione culturale e religiosa, in breve sulla vita quotidiana di ciascuno.
Parole nuove, dicevamo (l’espressione non è nostra, ma del ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi). La differenza di linguaggio, e prima ancora di approccio culturale, con il governo precedente è abissale. In un Paese dalla memoria corta serve forse ricordare che uno dei pilastri della maggioranza che ha governato per larga parte degli ultimi 12 anni, Umberto Bossi, invitava gli immigrati ad andare «föra di ball», minacciava di «prendere i fucili» contro di loro e urlava di assegnare le case popolari ai milanesi, «non al primo bingo bongo che arriva». Un «maestro» che ha fatto scuola per un’intera generazione di ministri, parlamentari, amministratori locali, giornalisti di regime, abilissimi a usare l’immigrazione (e gli immigrati) per alimentare le paure degli elettori e guadagnarne il consenso.
Il cambiamento nei toni e nella qualità del dibattito impresso dal nuovo governo ha avuto effetti benefici a cascata, ad esempio nel linguaggio dei mass media (non di tutti, purtroppo) e in un clima che, su questo tema, sembra complessivamente meno incattivito. Qui, però, ci si ferma. I danni del precedente esecutivo non sono stati solo verbali: leggi miopi, provvedimenti discriminatori, decisioni anacronistiche. E nulla di questo impianto è stato scalfito. La legge di riferimento sull’immigrazione in Italia continua a essere la Bossi-Fini: nata nel 2001 già con molte criticità, mostra oggi tutta la sua inadeguatezza. I Cie restano ciò che erano un anno fa: costose e inutili «discariche umane», che di fatto funzionano come carceri pur ospitando persone che non hanno commesso alcun reato, se non l’essere prive di documenti in regola. La legge sulla cittadinanza si ostina a considerare immigrate centinaia di migliaia di persone che non sono mai immigrate da nessun Paese: sono i 705mila minori, figli di genitori stranieri ma nati in Italia, cresciuti qui, compagni di studi e di giochi di altri bambini in nulla diversi da loro, se non nei diritti. Il Trattato Italia-Libia, siglato dal tandem Gheddafi-Berlusconi nel 2008, è ancora in vigore: eppure, come denunciammo fin da subito e come poi si è visto con i respingimenti in mare, il Trattato sacrifica sull’altare del business e delle materie prime i diritti di quanti fuggono da guerre e persecuzioni politiche.
È vero: il governo è cambiato, ma la classe politica è rimasta la stessa, e su certi temi - lo hanno ammesso i ministri competenti - si è deciso di lasciare la parola al Parlamento. Resta però il sapore amaro di un’occasione persa: ciò che si è riusciti a fare in materia economica, vincendo le resistenze dei partiti, trovando una sintesi tra i diversi orientamenti e spesso sfidando l’impopolarità, non si è saputo o voluto fare con l’immigrazione. Così, tutto è rimandato alla prossima legislatura, con le nubi dell’ingovernabilità all’orizzonte.
Stefano Femminis