La guerra civile nel Sud Sudan si sta trasformando in un’emergenza umanitaria. A denunciarlo è il Jesuit Refugee Service dell’Africa orientale che nella sua
newsletter fornisce alcuni dati sulla situazione di rifugiati e profughi. Secondo l’organizzazione della Compagnia di Gesù, almeno 190mila persone hanno cercato rifugio all’estero. La maggior parte (70mila) è fuggita nel distretto del Western Nile nel Nord dell’Uganda. Altri 60mila hanno trovato accoglienza in Etiopia, 20mila in Kenya e 40mila in Sudan. Nei campi il Jrs ha avviato una seire di progetti in campo educativo, sanitario e alimentare.
A chi ha varcato i confini si aggiungono però 705mila profughi interni che, pur avendo abbandonato le loro abitazioni, non hanno varcato i confini nazionali. «I rifugiati sudsudanesi - spiegano gli operatori del Jrs - hanno paura a rientrare nei loro villaggi, dopo aver vissuto la violenza degli scontri etnici che hanno già causato più di diecimila morti».
La violenza è scoppiata il 15 dicembre quando l’ex vice presidente Riek Machar (defenestrato in estate) ha tentato di rovesciare il presidente Salva Kiir. Il conflitto ha subito assunto i contorni di una guerra etnica nella quale i nuer (l’etnia di Machar) si sono contrapposti allo strapotere dei dinka (il gruppo etnico maggioritario di cui fa parte Kiir). Lo scontro è stato durissimo e ha interessato soprattutto le regioni petrolifere e, in particolare, Upper Nile e Jonglai. E anche il cessate-il-fuoco, siglato dalle parti ad Addis Abeba il 23 gennaio, non ha posto fine ai combattimenti. Molte milizie ai comandi di leader locali hanno continuato e continuano a scontrarsi, portando instabilità nel Paese.
Intantoil 18 marzo ad Addis Abeba si è aperta una nuova sessione dei colloqui di pace. Sul tavolo il dispiegamento in Sud Sudan di una forza multinazionale sostenuta dall’Unione africana. Anche su questo punto però i contendenti si sono divisi. Kiir si è espresso in modo favorevole. Machar ha denunciato il rischio di una nuova ingerenza. Il timore dei nuer è che Uganda, Kenya ed Etiopia (le cui truppe probabilmente faranno parte del contingente) siano più interessati a gestire le risorse petrolifere che non a farsi garanti della pace nel Sud Sudan.
Enrico Casale