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Il "figlio" di Schindler
20 gennaio 2012
Un solo ebreo italiano si salvò dall’Olocausto grazie alla famosa lista dell’imprenditore tedesco Oskar Schindler. In occasione della Giornata della memoria del 27 gennaio, che celebra le vittime dello sterminio nazista, il figlio, editore fiorentino, ricorda la tragedia vissuta dal padre.

Un distinto signore sulla sessantina ci accoglie nello studio della sua casa editrice. Ha un volto simpatico con un sorriso affabile e con molta cordialità ci fa accomodare. Sulla scrivania una serie di fotografie, alcune in bianco e nero. In una di queste spicca la dolcezza e la tenerezza di una bambina, con gli occhi chiari, i capelli biondi e un sorriso bellissimo. Mentre la guardiamo, ci dice: «Si chiamava Sissel, a otto anni le hanno fatto varcare la soglia di una camera a gas: era la mia sorellina».
Il sorriso cordiale di Daniel Vogelmann, figlio dell’unico ebreo italiano della «Schindler’s List» si dissolve in un attimo e il suo sguardo fattosi serio ci prende mentalmente per mano per condurci a ritroso nel tempo, in anni e luoghi che facciamo fatica a immaginare.

Come è emersa l’appartenenza di suo padre Schulim alla lista di Oskar Schindler?
Lui non mi ha mai raccontato niente. Dopo l’uscita nel 1993 del famoso e premiato film (vinse sette Oscar e tre Golden Globe) di Steven Spielberg, furono prodotti anche alcuni cortometraggi di approfondimento sulla famosa lista. In una scena di uno di questi vengono inquadrati in primo piano i fogli originali della «Schindler’s List». Un mio conoscente lesse il nome di mio padre, Schulim Vogelmann, e me lo riferì. Come si può immaginare è stata una scoperta che mi ha colpito molto e che mi ha spinto a eseguire ricerche direttamente presso l’archivio dello Yad Vashem a Gerusalemme, dove ho avuto la conferma ufficiale di ciò che stavo cercando. Successivamente anche a Bad Arolsen in Assia, dagli archivi contenenti vari dossier segreti sui crimini del Terzo Reich, è emersa una lista originale di Schindler con 1.117 nominativi, uno solo è italiano. La riga riporta: «39.Ju.Ital.69L77 Vogelmann Szulim 28.4.O3 BuchdruckerMeister (maestro tipografo, ndr)».

Suo padre non aveva origini italiane. Dov’era nato?
Mio padre è nato vicino a Leopoli (al tempo in Polonia, ora in Ucraina) nel 1903. Poco dopo l’inizio della prima guerra mondiale si trasferì insieme alla famiglia a Vienna. In lui era forte l’ideale di raggiungere la terra dei padri: la Palestina. Quando compì 15 anni, senza indugiare, decise di andare in Medio Oriente. Nachum, mio nonno, non si oppose. Lo accompagnò alla stazione e lo salutò dicendogli: «Cosa vuoi che ti dica? Di mangiare con coltello e forchetta? Sii sempre onesto!». Non si videro mai più.

Come viveva a soli 15 anni in Palestina?
Appena arrivato a Gerusalemme andò ad arruolarsi nell’esercito britannico che allora controllava la Palestina, ma non fu un’esperienza che lo entusiasmò. Dopo appena tre anni, trascorsi in quello che diverrà nel 1948 lo Stato di Israele, si trasferì in Italia. Mio padre era un ebreo osservante, era stato educato in una famiglia di ebrei ortodossi e suo fratello Mordechai era uno stimato rabbino che fu chiamato a Firenze a insegnare Talmud nel prestigioso Collegio rabbinico. Mordechai chiamò quindi Schulim nel capoluogo fiorentino e gli procurò un lavoro che gli permettesse di rispettare la festività del sabato. Lo assunse, con la mansione di compositore a mano, l’editore e libraio ebreo Samuel Olschki, proprietario della Tipografia Giuntina. Successivamente si sposò con Annetta Disegni, figlia del rabbino capo di Torino (e, grazie al matrimonio, acquisì anche la cittadinanza italiana). Nel 1935, dalla loro unione nacque Sissel.

DALLA FELICITÀ ALLA TRAGEDIA
Un buon lavoro, una bel matrimonio, una bellissima bambina, ci sono tutti gli ingredienti per progettare con ottimismo il futuro...
C’è un proverbio che recita: «Quando sei felice non urlare troppo forte, il dolore ha il sonno leggero». Nel 1938 con la promulgazione in Italia delle leggi razziali iniziò la grande tragedia. La moglie di mio padre venne licenziata dalla sua cattedra d’insegnamento all’Istituto Duca D’Aosta di Firenze, Sissel dovette lasciare l’asilo pubblico per quello ebraico e a mio padre venne revocata la cittadinanza (che riacquisterà solo dopo la fine del conflitto). Oltre a tutti i divieti per gli ebrei che rendevano la vita delle comunità italiane veramente difficile, nel 1940 Mussolini entrò in guerra a fianco della Germania. Ma il peggio per la mia famiglia doveva ancora arrivare. I tedeschi invasero l’Italia l’8 settembre 1943. Mio padre, con Annetta e la piccola Sissel, tentò di fuggire verso la Svizzera, ma vicino a Sondrio vennero arrestati dalle milizie fasciste. Riportati a Firenze, li internarono in un campo di concentramento nei pressi di Bagno a Ripoli e da lì, poco tempo dopo, furono trasferiti nel carcere milanese di San Vittore.

E dopo cosa accadde?
Il 30 gennaio 1944, con altre 607 persone, vennero condotti alla Stazione Centrale dove, al tristemente noto Binario 21, li attendeva un treno con destinazione Auschwitz.
Il viaggio durò una settimana: arrivarono in 610 ad Auschwitz, tornarono a casa in 20, tra questi anche mio padre. Sua moglie Annetta e la piccola Sissel non sopravvissero. Lui ce la fece con molta probabilità grazie alla sua professione di tipografo, che si rivelò molto utile per i nazisti. Questi ultimi volevano stampare documenti bancari, sterline e dollari falsi (come narra un altro celebre film: Il falsario-Operazione Bernhard) per mettere in grave crisi le banche centrali inglese e americana. Fu trasferito, per le sue capacità e peculiarità professionali, a Plaszow. È proprio nel campo di lavoro del famigerato comandante Amon Göth che deve essere entrato in contatto con coloro che lavoravano per Oskar Schindler. Ricordandosi ancora qualcosa della lingua madre polacca riuscì a familiarizzare con gli altri prigionieri provenienti dal ghetto di Cracovia e a farsi inserire nella «lista dei salvati», che furono trasferiti nella fabbrica di Schindler a Brünnlitz (Brnenec) passando per Gross-Rosen.
Fu liberato alla fine di aprile 1945 dall’Armata Rossa, rientrò a casa a piedi e con mezzi di fortuna, una volta arrivato a Firenze tornò a lavorare alla Tipografia Giuntina. Successivamente la acquisì divenendone l’u­nico proprietario e riuscì a ricostruirsi una famiglia: si sposò con Albana Mondolfi Passigli, madre di Guidobaldo, e nel 1948 nacqui io.

Ha condiviso con lei qualche ricordo di quei tragici anni?
Pochissimo, quasi niente. Ricordo la sua visibile amarezza, quando mi raccontava dell’indifferenza e dell’incredulità manifestata dalle persone, quando tentava di raccontare cosa aveva visto e vissuto. Credo che con grande amore paterno abbia voluto tenermi distante dalla violenza e dall’orrore che certi ricordi tragici hanno il potere di emanare anche a distanza di tempo.

Auschwitz come ha influenzato la fede di una persona osservante come suo padre?
In modo determinante. Noi abbiamo una visione precisa del Dio dei nostri Padri che si è manifestato a noi con connotazioni chiare. Questo Dio potente, il nostro «Dio degli eserciti» sembra aver fermato i propri passi alle soglie d’ingresso dei campi, dove invece è entrato il suo popolo. È difficile avere una grande e incondizionata fede nel Dio di Israele dopo Auschwitz. Quando gli chiedevo se credesse ancora in Dio lui mi rispondeva: «Un essere superiore ci sarà...».

IL DOVERE DI NON DIMENTICARE
Com’è nata l’idea della casa editrice?
Negli anni Settanta iniziai a lavorare nella tipografia di famiglia. Mio padre è morto nel 1974, lo stesso anno di Oskar Schindler. Per me è stato un colpo devastante. Sulla lapide della sua tomba è riportato il numero di matricola che aveva sul braccio, perché coloro che la visitano facciano memoria di ciò che è accaduto. Oltre al numero di matricola è incisa una frase in ebraico tratta da Qohelet (7,1) tradotta significa: «Un buon nome è preferibile all’unguento profumato (inteso come grande ricchezza, ndr)». È una frase che mio padre ripeteva spesso nei tempi delle decisioni importanti e che ha onorato tutta la sua vita. Risuona in me al pari del «Sii sempre onesto» che gli disse un giorno suo padre. Il valore di certe cose le comprendi solo con il tempo. La percezione della sua mancanza è inalterata negli anni. La grande sofferenza dovuta alla sua perdita è stata feconda per maturare la decisione di fondare una casa editrice e, nel 1980, il progetto ha preso forma.

La Giuntina può considerarsi un modo per riappropriarsi della sua storia familiare?
Sicuramente. Dal 1980 a oggi abbiamo pubblicato 520 opere divise in cinque collane. Le nostre pubblicazioni si rivolgono soprattutto ai non ebrei affinché conoscano la cultura ebraica in tutte le sue forme. Il primo libro pubblicato, nella collana «Schulim Vogelmann» dedicata a mio padre, è stato La notte di Elie Wiesel, quando ancora era sconosciuto ai molti, appena qualche anno prima che gli conferissero il Premio Nobel per la Pace. La Giuntina fece uscire in Italia anche alcune opere di un certo Abraham Yehoshua, quando era sconosciuto nel nostro Paese. Oggi mio figlio Shulim ed io portiamo avanti questa proposta editoriale unica in Italia, è importante produrre una cultura della memoria e dell’incontro tra popoli. Credo che, nonostante il trascorrere dei secoli, culture e religioni diverse abbiano molte cose ancora da raccontarsi e condividere. È un lungo cammino che fa bene reciprocamente e fortifica i percorsi verso la pace. I nostri libri sono tradotti in varie lingue, ma la cosa a cui teniamo di più è il rapporto diretto con i nostri lettori che manteniamo anche attraverso il nostro sito (www.giuntina.it). La nostra storia continua, nonostante la tragedia che ha colpito mio padre.

È mai stato ad Auschwitz?
Ci sono andato qualche anno fa, sono partito dal Binario 16 di Firenze Santa Maria Novella, lo stesso binario dal quale partivano i convogli diretti verso la Germania. È inutile dire che le emozioni forti e i pensieri ti assalgono già mentre sei lì che attendi il treno. Una volta arrivati al campo il ricordo di Sissel mi ha rapito. Anche se sappiamo che la sua permanenza è stata breve, cercavo di immaginarla in quei terribili luoghi, con gli altri bambini o magari con sua madre. Spero solamente che non si sia mai sentita sola».
C’è una foto a colori sulla scrivania di Daniel Vogelmann, è una tenerissima piccola bambina, con gli occhi chiari, i capelli biondi e un bellissimo sorriso. Si chiama Alma, è la nipotina (figlia di suo figlio Shulim) e assomiglia molto a Sissel. È la migliore testimonianza di come la speranza dell’uomo nell’amore e la fiducia nell’efficacia delle sue dinamiche, rappresenti l’unica risposta vincente alla logica del male.
Marco Giorgetti

© FCSF – Popoli