Fuggiti dal Corno d’Africa, hanno ricevuto lo status di rifugiati ma nessun sostegno per integrarsi in Italia. Da sette anni c’è un «paese» di 800 abitanti dentro Roma, dimenticato dalle istituzioni nonostante i richiami del Consiglio d’Europa e le denunce dei media internazionali. Un reportage sulla vita degli ospiti di Salaam Palace.
Salaam Palace è un enorme blocco di vetro e cemento che sorge a ridosso del Grande raccordo anulare. Siamo a Roma, zona Romanina, a due passi dall’Università di Tor Vergata e da uno dei centri commerciali «storici» della capitale. I vetri a specchio che coprono l’intera superficie della facciata fanno da schermo tra la vita caotica della città e il microcosmo pulsante di questo palazzone occupato da centinaia di rifugiati provenienti dal Corno d’Africa.
Quando sono entrati per la prima volta, nel 2006, erano circa duecento. Oggi, a sette anni di distanza e dopo una lunga, accidentata storia fatta di incendi, allagamenti, falliti trasferimenti e progressivo degrado, gli occupanti sono circa 800, tra i quali 300 donne e una cinquantina di bambini. Eritrei, etiopi, somali, sudanesi: quattro comunità eterogenee ma in qualche modo organizzate, all’interno delle quali decine di singoli e famiglie cercano, nonostante i mille disagi, di riannodare i fili di vicende esistenziali terribilmente complicate.
Per loro, nell’estate 2012 si è mosso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, che ha voluto visitare Salaam Palace e ha poi rilasciato un rapporto in cui ha denunciato severamente lo stato di indigenza e le precarie condizioni igienico-sanitarie degli occupanti: rifugiati in fuga da fame, guerra e violenze di ogni tipo, in Italia hanno chiesto e ottenuto la protezione internazionale, senza tuttavia che a tale riconoscimento abbia fatto seguito, da parte delle istituzioni, l’assicurazione delle misure di assistenza legale, psicologica e socio-sanitaria previste dagli accordi internazionali di cui l’Italia è firmataria.
RIFUGIATI DI SERIE B
Un diritto d’asilo di serie B, insomma, come spiega Ahmed, etiope, 28 anni di cui quasi sei trascorsi da inquilino di Salaam Palace: «I giornali e la televisione ogni tanto parlano di noi, ma poi niente si muove e qui continuiamo a vivere in condizioni impossibili, senza che ci venga data veramente la possibilità di ricostruirci una vita. Io per un paio d’anni ho fatto l’operaio in un’acciaieria vicino a Terni, ma poi con la crisi economica il contratto non è stato rinnovato. Da allora sono disoccupato. E non sono il solo qui dentro», aggiunge indicando la fila di furgoncini bianchi parcheggiati nel cortile del palazzo. Appartengono ad alcuni occupanti i quali, fino a poco tempo fa, riuscivano a cavarsela come venditori ambulanti di frutta e vestiti: «Sono fermi da settimane perché le spese sono alte e i ricavi, a causa della crisi che induce la gente a spendere meno, insufficienti. Eppure siamo sotto Natale…», commenta mesto Ahmed.
Accanto a lui Omar, maglietta rossa del Liverpool sotto una giacca rimediata chissà dove, non si dà pace. Qualche anno fa ha provato a cercare fortuna in Inghilterra, ma è stato presto rispedito in Italia, dove ha lavorato come stagionale nella raccolta della frutta in Campania. Le lunghe ore passate chino sulla terra gli hanno procurato un serio problema alla schiena, che ora gli impedisce di trovare un nuovo impiego: «Sto spendendo molti soldi per le cure e, senza lavoro, sono costretto a farmi mandare il denaro dalla mia famiglia, che vive in Sudan».
È un rovesciamento del meccanismo delle rimesse: solitamente sono infatti gli emigranti a contribuire, con il denaro inviato ogni mese, al sostentamento della famiglia rimasta in patria. In questo caso, è l’emigrato ad aver bisogno di aiuto. Un vero e proprio paradosso, che la dice lunga sulla reale condizione dei rifugiati in Italia, troppo spesso prigionieri delle pastoie burocratiche di un sistema inefficiente, che li spinge in un limbo di marginalità e indifferenza.
«Vorrei tanto tornare in Inghilterra - spiega Omar - ma sono bloccato qui». La Convenzione di Dublino, infatti, prevede che i rifugiati risiedano sul territorio dello Stato che li ha accolti per primo, senza poter circolare liberamente negli altri Paesi dell’Unione europea. Molti degli occupanti di Salaam Palace raccontano di aver girato praticamente tutta l’Europa centro-settentrionale, dalla Francia all’Olanda, fino alla Scandinavia e alla Gran Bretagna, senza tuttavia poter mettere radici in alcun luogo a causa della loro particolare posizione giuridica. Tutti, prima o dopo, sono stati costretti a tornare a Roma, a Salaam Palace.
«Dove altro potremmo andare?», si chiede esasperato Jafar, somalo, all’uscita dalla moschea improvvisata che gli occupanti hanno allestito in uno scantinato del palazzo. All’interno, Salaam Palace ospita anche un mini-market, un ristorante, una sala comune e una piccola officina meccanica, tutti esercizi auto-organizzati. In media c’è un bagno ogni 250 persone
La convivenza non è facile e la tenuta psicofisica degli abitanti è costantemente a rischio, ma ci si aiuta e si va avanti, nella speranza che prima o poi qualcosa accada.
STATO FANTASMA
Proprio sotto Natale, il muro di indifferenza che circonda Salaam Palace ha ricevuto un nuovo colpo da un articolo pubblicato sull’International Herald Tribune (ne erano già usciti altri due, su Der Spiegel e Financial Times): la corrispondente Elisabetta Povoledo ha preso spunto proprio dalla storia dei rifugiati che occupano il palazzo romano per tratteggiare, con estrema lucidità, il «paradosso» della politiche italiane in materia di rifugiati. «I rifugiati in Italia trovano prima accoglienza, poi abbandono», ha titolato in prima pagina l’edizione internazionale del New York Times, illustrando poi il dissesto di un sistema che, come spiega la portavoce uscente dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati Laura Boldrini, «funziona nel riconoscimento del diritto d’asilo», concedendo «lo status di rifugiato al 40% di chi ne fa richiesta», ma è poi incapace di garantire a tutti i rifugiati il debito sostegno in materia di alloggio, assistenza sanitaria, integrazione linguistica, avviamento professionale.
Sono infatti soltanto una minoranza, circa tremila, i rifugiati che beneficiano dei programmi di protezione e assistenza governativi. Gli altri - e parliamo di circa 7.400 persone stando alle liste d’attesa del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito nel 2002 - restano soli. Di fatto abbandonati a se stessi, sono spesso costretti a ripiegare su soluzioni abitative illegali, come gli ottocento africani del Salaam Palace di Roma.
Un cortocircuito istituzionale che non può essere giustificato dalla ondata di immigrati provenienti dal continente africano, i quali nell’ultimo biennio sono fuggiti dai loro Paesi e hanno trovato nell’Italia il loro primo approdo: lo Stato italiano, infatti, accoglieva nel 2011 58mila rifugiati, vale a dire circa uno ogni mille abitanti, mentre la Germania ne ospitava ben 571mila e i Paesi del Nord Europa superavano gli 11 rifugiati ogni mille abitanti.
L’aumento pur considerevole del numero dei richiedenti asilo, in realtà, si è trasformato in un fenomeno incontrollabile ed emergenziale a causa della mancanza, nell’ordinamento italiano, di una legge organica in grado di predisporre un sistema nazionale di accoglienza, protezione e integrazione dei rifugiati. Un caso unico in Europa, come denuncia l’Acnur, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che complica l’azione delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni di volontariato, troppo spesso chiamate a svolgere un ruolo di supplenza dello Stato.
È quanto avviene anche a Salaam Palace, dove i volontari dell’associazione Cittadini del mondo hanno attivato sin dal 2006 un servizio di assistenza sociosanitaria, che attua interventi di base per fronteggiare le molteplici patologie di cui soffrono gli abitanti (problemi respiratori, dermatiti, scabbia, ulcere, ansia e depressione le più diffuse) e segue gli abitanti del palazzo nei complessi iter burocratici necessari per l’accesso ai servizi del servizio sanitario nazionale, delle Asl e del Municipio. Proprio in queste settimane, i medici volontari hanno avviato la campagna di vaccinazione antiinfluenzale.
Mentre a non molti chilometri da qui, nei palazzi della politica nazionale e locale, le preoccupazioni per la crisi economica e le grandi manovre elettorali escludono ogni altro tema dall’agenda, le famiglie di Salaam Palace trascorrono l’ennesimo inverno di spifferi, sospiri e privazioni.
Ahmed, Omar e Jafar sanno bene che, nonostante le dichiarazioni d’intenti e i rassicuranti comunicati stampa istituzionali seguiti all’ultima denuncia internazionale, difficilmente la loro situazione cambierà. Dopo l’inverno, nessuna primavera.
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testo Michele Camaioni
foto Marco Zeppettella