«La popolazione è perplessa. Non si sa come funzionerà questa legge e quali effetti provocherà sull’economia». Magari Mandebvu, un esperto zimbabwiano che da anni analizza i problemi legati alla politica e all’economia del suo Paese, commenta così l’Indigenisation and Economic Empowerment Act: questa normativa prevede che il controllo delle società di proprietà di imprenditori stranieri passi a imprenditori africani. Originariamente la legge prevedeva che ogni società con un capitale superiore ai 500mila dollari Usa dovesse avere almeno il 51% degli azionisti zimbabwiani. Successivamente il Parlamento ha approvato una legge che estendeva l’obbligo a tutte le aziende che avessero un capitale di almeno un dollaro Usa. Quest’ultima norma prevede che tutte le imprese presentino entro settembre di quest’anno un piano che indichi come raggiungere l’obiettivo del 51% di proprietari locali entro il 2015. Una legge approvata non solo con i voti dello Zanu-Pf, il partito del presidente Robert Mugabe, ma anche con quelli dell’Mdc, l’ex partito di opposizione ora al governo con lo Zanu-Pf.
«Pochi zimbabwiani - continua Magari Mandebvu - hanno i capitali necessari per acquistare le società. È stato creato l’Indigenation and Economic Empowerment Fund che dovrebbe acquisire le azioni eccedenti il limite consentito agli investitori stranieri. Ma questo fondo non si sa come verrà finanziato. Il rischio è che il piccolo gruppo di “imprenditori” legati allo Zanu-Pf e alle forze armate, che già controlla quanto rimane dell’economia zimbabwiana, acquisti le azioni, anche minacciando con la violenza gli attuali proprietari. Queste «imprenditori» sono gli stessi che si sono arricchiti sfruttando la controversa riforma agraria voluta nel 2000 da Mugabe e l’occupazione delle miniere di diamanti di Chiadzwa (tra le più ricche del mondo). Sono gli stessi che nel 2005 hanno promosso la distruzione di migliaia di esercizi commerciali informali, lasciando senza lavoro 2,5 milioni di persone e 400mila senza un tetto sotto il quale vivere».
L’economia zimbabwiana è al collasso. Nel 1989 l’industria garantiva il 27% del Pil nazionale e circa il 30% dell’occupazione. Dieci anni dopo, anche grazie alle disastrose politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale, il settore industriale si era contratto al 14%, contrazione che è continuata negli anni Duemila, anche per effetto della sciagurata riforma agraria che ha messo in ginocchio la fiorente industria di trasformazione alimentare, e oggi si attesta intorno al 10%. «Queste performances negative - osserva Mandebvu - non hanno insegnato nulla alla classe dirigente del Paese che credo farà ancora ricorso alla violenza per minacciare gli imprenditori che si opporranno alla politica di “indigenizzazione”. La Southern African Development Community (l’organizzazione regionale dell’Africa meridionale) ha annunciato che vigilerà». Ma la «cricca» dei potenti è capace di qualsiasi sorpresa.
E venerdì 10 giugno è arrivato un colpo di scena: il Senato ha dichiarato incostituzionale la normativa. «Non si sa di preciso cosa comporterà questa decisione - conclude Mandebvu -. Non è escluso che abbiano fatto forti pressioni i cinesi che hanno grandi interessi economici in Zimbabwe e certo non sono disposti a far gestire le proprie aziende da locali. Speriamo che, qualsiasi decisione verrà presa, non porti a un ulteriore crollo dell’economia».
Enrico Casale