Tutto deve cambiare affinché tutto rimanga uguale. In Libia il regime è crollato e il rais Muammar Gheddafi è morto. In Italia, il governo di Silvio Berlusconi è caduto e al suo posto è subentrato un esecutivo di «tecnici» guidato da Mario Monti. Eppure sul fronte del contrasto ai flussi migratori non è mutato nulla. I vecchi accordi siglati nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi sono stati confermati dai nuovi esecutivi. Con un’aggravante: se Berlusconi e Gheddafi diedero ampia pubblicità alla loro intesa, Monti e l’omologo Abdel Rahim Al Kib hanno mantenuto un profilo bassissimo cercando di dare il minore risalto possibile agli accordi.
Il primo passo è stato compiuto il 15 dicembre quando il premier Monti e il presidente del Consiglio nazionale transitorio libico Mustafa Abdul Jalil hanno sottoscritto una dichiarazione di intenti in cui hanno riattivato il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione siglato nel 2008. Il Trattato è molto complesso, ma ha, fondamentalmente, tre obiettivi: chiudere il contenzioso coloniale tra i due Paesi (senza però risolvere il problema dei risarcimenti agli italiani espulsi dalla Libia nel 1970), creare i presupposti per una collaborazione in campo energetico, attuare gli accordi siglati in passato per contenere l’immigrazione clandestina. E proprio sulla questione dell’immigrazione clandestina un ulteriore passo è stato compiuto il 3 aprile. In quella data Annamaria Cancellieri, ministro dell’Interno italiano, e il suo omologo Fawzi al-Taher Abdulali si sono incontrati a Tripoli e hanno sottoscritto un verbale sul contenimento dei flussi migratori. Il testo dell’intesa è stato tenuto segreto fino al 18 giugno, quando il giornalista Guido Ruotolo è riuscito ad averne una copia e a pubblicare il contenuto sul quotidiano
La Stampa.
L’accordo riconferma le vecchie intese compreso quell’accordo sui respingimenti in mare. Una pratica, quest’ultima, che il 23 febbraio è stata messa sotto accusa dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato il nostro Paese a pene severe per un respingimento in mare di 24 persone avvenuto nel 2009. Nel testo si legge che Italia e Libia devono «adoperarsi nella programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza, nonché in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali e in conformità del diritto marittimo internazionale».
Per realizzare questo obiettivo, il verbale prevede «l’avvio di programmi di addestramento (del personale libico) in vari settori afferenti la sicurezza, tra cui tecniche di controllo di polizia di frontiera, individuazione di falso documentale e conduzione di mezzi navali». A ciò si aggiunge la creazione da parte dell’Italia di un «centro di individuazione di falso documentale» nell’ambasciata italiana di Tripoli.
L’Italia si impegna poi a sollecitare la Commissione europea «affinché fornisca il proprio sostegno a ripristinare i centri di accoglienza presenti in Libia» e a creare un centro sanitario nell’oasi di Kufra, la porta di accesso dei migranti che arrivano dal Corno d’Africa. Il tema dei centri di accoglienza è particolarmente delicato perché Tripoli non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiati. Gli immigrati vengono quindi trattati tutti allo stesso modo anche se molti di essi (eritrei, somali, sudanesi) fuggono da situazioni di guerra o di violazione dei diritti umani. Ma nel verbale non si fa cenno a garanzie specifiche per i richiedenti asilo.
Nell’intesa viene infine ribadita la disponibilità di Roma alla fornitura di «mezzi tecnici e attrezzature, atti a rafforzare la sorveglianza delle frontiere libiche». Si tratta di un altro punto controverso perché implica, come già previsto nell’accordo del 2008, non solo l’assistenza per la creazione di una barriera elettronica per il controllo della frontiera, ma anche la possibile fornitura di mezzi (elicotteri, fuoristrada, ecc.) per contrastare i flussi migratori. Mezzi dei quali non si sa che utilizzo possa essere fatto in un Paese, come la Libia, che nel periodo post-Gheddafi non ha ancora raggiunto la stabilità politica.
Enrico Casale