La Francia ha dato il via in questi giorni all’operazione di ritiro dei propri soldati dal Mali. I 3.800 militari oggi presenti nel Paese diventeranno duemila a settembre e non più di un migliaio a fine d’anno. Il ridimensionamento del contingente transalpino è collegato al dispiegamento di una missione Onu con almeno 11mila peacekeepers africani, che dovrebbero essere operativi entro luglio (mese in cui sono previste le elezioni presidenziali e legislative).
In che modo questo ritiro modifica gli attuali scenari geopolitici? C’è il rischio che il fondamentalismo islamico possa espandersi verso Sud? Come stanno operando in quest’area gli Stati Uniti e la Gran Bretagna? Popoli.info ne ha parlato con Federico Petroni, analista di
Limes.
«Quello delle truppe francesi - osserva Petroni - è un ritiro parziale. Sul territorio resterà un contingente per condurre azioni di antiterrorismo. Già ora i francesi non sono più impegnati in un’offensiva, ma si sono concentrati sulla caccia a quelle poche centinaia di qaedisti e dei loro alleati presenti nel Nord del Mali. Dal punto di vista operativo quindi non cambierà molto. Il ritiro delle truppe creerà però un vuoto nelle città settentrionali del Mali (Timbuctu, Gao, Kidal) che in linea teorica sono state liberate, in realtà sono solo state sgomberate dai terroristi che sono fuggiti sulle montagne. I fondamentalisti non vedono l’ora di tornare nelle città non tanto per riprenderne il controllo, ma per condurre azioni terroristiche contro le truppe africane (poco addestrate) lasciate dai francesi nelle retrovie».
Gli Stati Uniti come considerano l’intervento francese in Mali?Lo giudicano positivamente perché Washington tende a delegare il più possibile gli interventi in quest’area agli alleati europei. E questo per due motivi. Anzitutto perché i transalpini mantengono l’ordine laddove gli americani sono meno presenti. In secondo luogo perché gli Usa possono fare una «guerra per procura» sfruttando la presenza massiccia dei francesi sul territorio. Non dimentichiamo poi che anche la Gran Bretagna ha una forte presenza in Africa occidentale anche se si tratta di un intervento più a livello di intelligence che non militare.
Quale è la strategia militare messa in atto dagli Stati Uniti per contenere il fenomeno del fondamentalismo islamico nel Sahel?La strategia americana ripropone gli stessi paradigmi impostati dal presidente Obama nella guerra al terrore in altri scenari, ma su una scala più piccola. Nel Sahel il jihadismo non ha ancora raggiunto il livello di pericolosità e minaccia strategica toccati da altre branche di al-Qaeda altrove (penso allo Yemen e al Pakistan) e quindi in questa area vengono svolte operazioni di sorveglianza e ricognizione, più che di tipo offensivo, per tenere sotto controllo le minacce di gruppi estremisti (Aqmi, Boko Haram, ecc.). Questa osservazione comporta la presenza sul terreno di agenti segreti, piccoli team dei reparti speciali (che addestrano le forze armate locali) e droni (disarmati).
C’è il rischio di un’espansione del terrorismo islamico verso la fascia subsahariana?Su questo punto non generalizzerei. In Africa, la mobilità da Stato a Stato non è così semplice come si potrebbe pensare. È vero che Boko Haram dalla Nigeria sconfina spesso in Niger e manda i suoi miliziani ad addestrarsi in Mali. Ed è anche vero che ci sono Paesi in cui il fondamentalismo islamico ha maggiori possibilità di fare adepti. Detto questo però non parlerei di un’«onda verde» verso il Sud. Nonostante l’islam abbia fedeli in tutta l’Africa, più si scende a Sud e meno il terreno per il proselitismo è fertile.
Nella fascia sahariana e saheliana il fondamentalismo islamico potrebbe creare una sua roccaforte?La fascia del Sahara e del Sahel è certamente un terreno in cui l’islam fondamentalista potrebbe attecchire. Non ci sono, però, almeno per il momento, segnali che indichino che al Qaeda si stia radicando nella regione. Anche perché i seguaci di Osama bin Laden in molte zone si sono imposti alle popolazioni con violenza: uccidendo, violentando e depredando. La popolazione vede questi terroristi come un corpo estraneo che cerca di assumere il controllo. Sono convinto che per contrastare il fondamentalismo vada ripristinato un corretto rapporto fra comunità locali e potere centrale degli Stati. Un’azione lunga e non semplice.
Enrico Casale