Il 3 luglio il viceministro degli Esteri italiano, Lapo Pistelli, ha incontrato ad Asmara il dittatore Isaias Afewerki con l’obiettivo - citiamo il comunicato stampa della Farnesina - di «favorire un pieno reinserimento dell’Eritrea quale attore responsabile e fondamentale della comunità internazionale nelle dinamiche di stabilizzazione regionale».
Come si possa pensare di far diventare «attore responsabile» chi da oltre vent’anni affama il suo popolo, imprigiona gli oppositori e costringe alla fuga decine di migliaia di giovani, ricattando le loro famiglie in patria, è un dilemma che forse solo il viceministro potrà chiarire. Altrettanto misterioso è che cosa intenda Pistelli quando dichiara: «Ho voluto chiarire personalmente anche al presidente Isaias qui ad Asmara che l’Italia è pronta a mostrare una disponibilità nuova». Probabilmente si riferisce alla disponibilità a potenziare gli interscambi economici, e qualche beninformato assicura sia compresa anche la vendita di armi tricolori (non un bel modo per promuovere la «stabilizzazione regionale»).
Certamente la missione governativa italiana in Eritrea (la prima dal 1997) nasce dal desiderio di arginare in qualche modo i flussi di migranti che dal Corno d’Africa arrivano sulle nostre coste - insieme ai tanti in fuga dalla Siria -, ma dubitiamo che la strada migliore sia sostenere e legittimare personaggi con le mani sporche di sangue. A costo di passare per ingenui, ci piacerebbe che tra le precondizioni di qualunque rapporto diplomatico ci fosse il rispetto dei diritti umani. Un’attenzione questa che, va detto, si riscontra invece nell’operazione Mare nostrum. Vincendo l’eterna tentazione di voltarsi dall’altra parte e sfidando anche qualche rischio di impopolarità, da ottobre 2013 l’Italia è impegnata in un’azione meritevole che ha sinora salvato più di 50mila migranti, il 30% dei quali sono proprio eritrei.
Dunque soccorriamo persone in fuga da una dittatura, ma poi discutiamo amabilmente con colui che di quella dittatura è il responsabile. Questa sorta di stato confusionale del governo in politica estera si nota anche in altri dossier: non è chiaro quale sia la nostra posizione sulla Siria, posto che ce ne sia una; quando nel 2011 sono scoppiate le primavere arabe siamo stati a guardare, timorosi di possibili derive fondamentaliste, e lo stesso stiamo facendo ora che trionfano la restaurazione (come in Egitto) o il caos (come in Libia); nel suo viaggio di giugno in Cina e in Vietnam, Matteo Renzi è stato accompagnato dalle principali aziende italiane e ha stretto accordi con alcune delle maggiori imprese asiatiche per stimolare il commercio tra Italia e Asia orientale, ma non ha speso una sola parola su democrazia, diritti umani e libertà. E si potrebbe continuare ricordando che il mondo della cooperazione internazionale è in subbuglio per una serie di anomalie nell’ultimo bando del Ministero degli Esteri, con molte Ong rimaste a secco di finanziamenti e altre invece particolarmente beneficiate.
Insomma, se davvero il governo Renzi intende durare mille giorni - come lo stesso presidente del Consiglio ha promesso e come noi gli auguriamo -, sarebbe bene che mettesse a fuoco e spiegasse agli italiani qual è la propria linea in politica estera. Per ora non si è capito.