Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Primo piano
Cerca in Primo Piano
 
Sud Sudan, dal sogno al tentato golpe
18 dicembre 2013
Nel 2011 il Sud Sudan aveva stupito il mondo facendo crollare in un giorno solo molti degli stereotipi che gravano sull’Africa. Con un referendum si era staccato pacificamente dal Sudan. La consultazione era stata regolare, non si erano verificati incidenti. Khartoum aveva accettato l’esito del voto. Per il piccolo Paese si apriva un futuro di indipendenza. È vero, la nazione era tutta da costruire: non c’erano (e non ci sono) strade, ponti, ospedali, scuole. Ma è anche vero che il Sud Sudan può contare su grandi riserve petrolifere e su abbondanti risorse idriche. Elementi questi che, se ben gestiti, possono garantire uno sviluppo equilibrato e duraturo per una nazione di 12 milioni di abitanti su un territorio grande due volte l’Italia. Eppure chi ha seguito la trentennale lotta di indipendenza non poteva non sapere che il Sud Sudan è una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento. Gli elementi per la deflagrazione erano già evidenti al momento del distacco.

Le tensioni con il Sudan
sono iniziate subito dopo l’indipendenza. Il problema più grande è la gestione delle risorse petrolifere. Con la secessione la gran parte dei pozzi, che in passato avevano garantito al governo di Khartoum cospicue entrate, è passata sotto la sovranità di Juba. Il Sud Sudan si trovava quindi a disposizione una grande ricchezza, ma non poteva sfruttarla. Non avendo sbocchi al mare, non gli era infatti possibile esportare il greggio se non sfruttando i vecchi oleodotti che passano dal Sudan. Ciò ha creato tensioni tra i due Paesi. Con il Sudan che imponeva pesanti tributi per il passaggio del petrolio sul suo suolo e il Sud Sudan che cercava accordi internazionali con il Kenya e l’Etiopia per costruire nuovi oleodotti. Lo scontro ha creato tensioni e instabilità e solo un accordo tra Khartoum e Juba, siglato il 12 marzo 2013, ha permesso ai 350.000 barili giornalieri estratti nel Sud di raggiungere Port Sudan.

Altra ragione
di instabilità è la mancata definizione dei confini tra Nord e Sud e, in particolare, l’assegnazione della regione dell’Abyei (ricchissima di petrolio). Khartoum e Juba hanno combattuto una guerra per interposta persona appoggiando rispettivamente le tribù arabe dei misseriya e quelle nere degli ngok dinka. Un referendum per l’autodeterminazione di Abyei, inizialmente previsto per il gennaio del 2011, è stato rinviato a data da destinarsi. Il 27, 28 e 29 ottobre 2013 il gruppo etnico dei ngok dinka ha organizzato una consultazione non ufficiale per decidere se fare parte del Sudan o del Sud Sudan. La maggior parte dei votanti ha dichiarato di voler far parte del Sud Sudan, ma al referendum non hanno partecipato gli appartenenti delle tribù di ceppo arabo. La tensione rimane quindi altissima.

Ma il Sud Sudan
coltiva anche al suo interno i semi della divisione. In entrambe le guerre di liberazione combattute contro il Nord (1955-1972 e 1983-2004), le milizie del Sud Sudan si sono riunite intorno al Spla/m (Sudan People’s Liberation Army/Movement). Nel movimento ha sempre mantenuto una posizione egemonica l’etnia dinka, alla quale appartenevano il leader storico John Garang e il suo successore e attuale presidente Salva Kiir. Questa posizione di egemonia (dettata anche dal fatto che i dinka sono l’etnia maggioritaria) si è, con il tempo, trasformata in una sorta di dittatura dinka sulle altre popolazioni sudsudanesi, in particolare i nuer. Il tentativo di golpe di questi giorni si inserisce in questo contesto. L’ex vice presidente Riek Machar, un nuer defenestrato in estate, ha tentato di destituire il presidente Salva Kiir. È ormai chiaro che nel Paese è iniziata una resa dei conti. E se il presidente Salva Kiir non progetterà un sistema istituzionale più inclusivo, il rischio è che il Sud Sudan si trasformi in una nuova dittatura.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli