«La secessione del Sud è scontata, anche perché negli anni è stato fatto poco o nulla per evitarla». Secondo Giovanni Sartor, portavoce della
Campagna Sudan, una rete italiana che opera dal 1995 a sostegno del processo di pace e in difesa dei diritti umani, il futuro del Sudan dopo il referendum per l’autodeterminazione, che si terrà il 9 gennaio, è segnato. Le regioni meridionali si staccheranno da quelle settentrionali e creeranno uno Stato con capitale Juba. «È giusto che si tenga il referendum - continua - perché la consultazione era prevista dagli accordi di pace del 2005 e perché rispetta il diritto di autodeterminazione delle popolazioni meridionali. Ma che cosa succederà dopo il referendum e dopo la quasi certa secessione è difficile dirlo».
Le premesse non sono delle migliori. A meno di due mesi dalla data della consultazione, si rincorrono i proclami violenti di molti politici, reparti dell’esercito sudanese e delle milizie sud sudanesi sono stati schierati ai confini e nei luoghi sensibili. Si temono scontri e addirittura la ripresa della guerra. I vescovi cattolici sudanesi il 15 novembre hanno diffuso un comunicato in cui rendono pubbliche le loro preoccupazioni. «Gli abitanti del Sud - spiegano - temono un’unità che opprime e limita, proibendo ogni forma di opposizione e imponendo una forzata uniformità. Quelli del Nord hanno paura di un’eventuale secessione. Il responso non deve essere visto come una minaccia da nessuna delle due parti, ma come un’opportunità». Secondo i prelati, «la secessione è una divisione di terre, non di persone. Cooperazione e collaborazione dovranno continuare in uno spirito di buon vicinato».
L’auspicio dei vescovi è condiviso dalla Campagna Sudan, anche se i responsabili non si nascondono i problemi. «La collaborazione - continua Sartor - è auspicabile. A nostro parere però la secessione creerà alcuni problemi». Sul tavolo c’è innanzi tutto la gestione delle risorse petrolifere. Molti giacimenti si trovano al Sud o in zone al confine tra Nord e Sud e quindi sarà indispensabile un’intesa tra Juba e Karthoum per una ripartizione equa dei proventi. Sarà possibile? O si creeranno nuove tensioni? La creazione di un nuovo Stato poi renderà ancora più complessa la gestione delle acque del Nilo. Attualmente il bacino del fiume, dalle sorgenti alla foce, è controllato dall’Egitto. Negli ultimi mesi però molti Paesi hanno iniziato a contestare questa supremazia chiedendo una migliore ripartizione delle acque. Non è escluso che Juba si aggiunga a essi. «Una volta raggiunta l’indipendenza - aggiunge Sartor - si porrà anche il problema della gestione del potere a Juba. Finora nel Sud, che è una regione abitata da molte etnie, hanno giocato un ruolo egemonico i dinka. Sarà ancora così in futuro? Quale rapporti si creeranno con gli altri gruppi?».
«Deve instaurarsi un rapporto di “buon vicinato” - osservano i vescovi – in cui reciproci benefici e compromessi favoriscano Nord e Sud sulle questioni relative a petrolio, frontiere e cittadinanza». In questo contesto, i vescovi auspicano che la consultazione sia «libera e trasparente» e che i risultati «siano accolti con calma e responsabilità da parte di tutti».